Iran: nucleare, il ritiro di Trump dall’accordo dei ‘5 +1’
L’annuncio da parte del presidente Trump della sua decisione di ritirarsi dall’ accordo sul nucleare con l’Iran si è materializzata l’8 aprile, a più di un anno dalla sua elezione, nonostante il punto fosse in grande evidenza nei suoi programmi. Questa lunga esitazione non è dovuta a ripensamenti di fondo da parte di Trump, ma al fatto che la prima fase della sua presidenza ha messo in luce una peculiare assenza nei ranghi dell’Amministrazione di collaboratori omogenei alle sue idee e pronti a metterle in atto.
Lo si è visto clamorosamente nel caso del segretario di Stato Rex Tillerson, ma è un fatto che partigiani dell’internazionalismo liberale del dopo Guerra Fredda sono ancora presenti a tutti i livelli dello Stato federale. Le origini non politiche di Trump e i dissensi che la sua elezione ha suscitato nello stesso campo repubblicano hanno ostacolato il necessario rinnovamento dei quadri, dai più alti livelli in giù.
Con l’avvento di John Bolton e Mike Pompeo, questa situazione viene ora meno. La decisione sul ritiro dal Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action) sul nucleare è una vistosa dimostrazione del cambiamento ed è persino possibile che l’amministrazione Trump proceda adesso all’edificazione di quella ottava meraviglia del mondo che sarebbe il muro fra Stati Uniti e Messico.
L’Iran la bestia nera dell’Amministrazione Trump
Che l’Iran fosse la bestia nera dell’Amministrazione Trump era, come si appena detto, fra i punti qualificanti del suo programma elettorale e di governo. Tale programma, ancora più strettamente di quello di Obama, affida la difesa della sicurezza americana in Medio Oriente e in Africa alla lotta contro il terrorismo. Nell’annunciare la decisione di ritirarsi dalla Jcpoa, Trump l’ha giustificata dicendo che l’Iran è un Paese terrorista. Ma qui il concetto di terrorismo ha la stessa latitudine di quello di Vladimir Putin: serve a indicare il nemico, senza poi preoccuparsi di andare nei dettagli per distinguere l’Isis e al Qaida dagli oppositori di Assad o dalle legioni (nazionali e straniere) di Teheran, che compiono beninteso la loro parte di atrocità, ma sono dei nemici politici e non dei terroristi internazionalisti e jihadisti.
L’Iran è innanzitutto un nemico, il vero e non inefficace nemico degli Stati Uniti e del suo ‘piccolo satana’ Israele, che oggi sta realizzando con successo il suo dominio nella regione da Teheran al Mediterraneo, con l’aiuto della Russia che come l’Iran (e – bisogna aggiungere – come l’ ‘alleato’ turco) vogliono escludere gli Usa dal Medio Oriente. Contro questo nemico genuino e pericoloso, l’Amministrazione Trump ha ragione di agire, ma non è davvero con il ritiro dall’ accordo sul nucleare che può efficacemente iniziare la sua giusta lotta contro l’Iran.
Quando nemico è uguale a terrorista
In principio, Trump deve decidere se il suo nemico è solo il terrorismo jihadista o se ha invece anche dei nemici politici contro cui usare la forza e la diplomazia, come fa con il terrorismo. La lotta all’Iran richiede uno sforzo politico e militare maggiore. Non penserà certo di poterlo fare attraverso i ‘proxies’ arabi della regione. Trump dovrebbe quindi cambiare la natura della sua strategia e, fra l’altro, assegnare al Medio Oriente più rilevanza di quella che gli vorrebbe dare (la stessa cosa capitò a Barack Obama).
Inoltre, di fatto, nei 18 mesi trascorsi dall’inizio della sua presidenza l’Amministrazione Trump ha spesso sottolineato nelle sua politica mediorientale la lotta all’Iran come un’alta priorità. Lo ha fatto esplicitamente il 20-21 maggio 2017 al ‘Middle East Summit’ svoltosi a Riad poco dopo il suo insediamento, come elemento fondante dell’alleanza americana con l’Arabia Saudita, gli Emirati, Bahrein, la Giordania, l’Egitto e Israele (l’alleato non detto dei conservatori arabi).
Ma poi ha portato avanti un anno di politica siriana che ha privilegiato i rapporti con la Russia, lasciando fare a Mosca, come se quest’ultima fosse una alleata sua invece che dell’Iran e lasciando che gli iraniani spadroneggino e abbiano nel Paese basi militari.
Un inizio sbagliato
Ora, sembra che la musica debba cambiare, ma è certo che se cambia con il ritiro dall’ accordo sul nucleare con l’Iran, ferma restando la condiscendenza verso gli alleati di Astana e il loro protetto Bashar Assad, la lotta all’Iran inizia con il piedi sbagliato: se, com’è giusto, gli Usa intendono combattere Teheran, debbono farlo appoggiando al meglio quel che resta dei loro possibili amici in Siria e apprestandosi a proteggere il premier Abadi e l’Iraq contro un’invadenza iraniana certamente non inferiore da quella in Siria per non parlare del Libano.
Mentre non si può fare conto su Bolton, Pompeo potrebbe mostrarsi più perspicace e quindi il ritiro dallo Jcpoa potrebbe essere seguito da un cambio di politica. In ogni caso è un inizio sbagliato, l’ accordo è comunque uno strumento utile sul piano della non proliferazione e dell’ancoraggio, in qualche modo, dell’Iran alla comunità internazionale; perché l’uscita dal JCPOA indebolisce l’Alleanza atlantica nel momento in cui gli Usa, apprestandoosi a una dura battaglia, ne avranno maggior bisogno; perché l’ accordo è un sostegno all’esistenza politica dei moderati iraniani, che in una regione di traboccanti nazionalismi non avranno ora altra alternativa che schierarsi con Khamenei in nome della patria tradita, esattamente come hanno fatti i kemalisti turchi.
In questo quadro, gli europei non dovrebbero semplicemente difendere il Jcpoa assieme ai moderati iraniani, integrandosi così da soli nel gioco di Khamenei e di Trump. Dovrebbero proporre agli Usa una politica comune più attiva in Iraq e Siria e, se Washington non accettasse, dovrebbero fare loro – insieme – qualche cosa. Non lo faranno, ma vale comunque la pena di provare a dirlo.
Foto di copertina © Martin H. Simon/CNP via ZUMA Wire