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Accortezze e accorgimenti

Iran: nucleare, le motivazioni di Trump per abbandonare il Jcpoa

17 Mag 2018 - Carlo Trezza - Carlo Trezza

Occorre riconoscere una certa accortezza dei collaboratori della Casa Bianca nel costruire gli argomenti impiegati dal presidente Donald Trump per giustificare il suo ripudio del Joint comprehensive plan of action (Jcpoa), cioè l’accordo sul nucleare con l’ Iran, e la conseguente reintroduzione delle sanzioni. Alcuni di tali argomenti meritano di essere sottoposti ad un vaglio più approfondito.

La “prova definitiva” di Trump
Nel denunciare l’accordo, il presidente Usa ha preso le mosse da una recente “prova definitiva” dell’esistenza di un programma nucleare militare iraniano. Analogamente a George W. Bush, che alla vigilia dell’attacco contro l’Iraq aveva citato Tony Blair per dimostrare il possesso di armi chimico/biologiche da parte di Saddam Hussein, anche Trump si è basato su prove provenienti dall’esterno.

Questa volta egli ha citato il premier israeliano Benjamin Netanyahu che proprio alla vigilia dell’annuncio americano ha dato teatralmente la notizia – in realtà già nota da tempo – di una possibile dimensione militare del nucleare iraniano. Il citare fonti esterne permette di non dovere fornire prove concrete di quanto affermato. Sia Trump che Netanyahu hanno omesso però di ricordare che, secondo gli stessi servizi americani, tali attività sarebbero cessate ben quindici anni fa e che se anche un intendimento di dotarsi dell’arma nucleare vi fosse stato – il che non è da escludere – esso verrebbe ora impedito proprio dall’accordo che Trump ha rinnegato.

Le condizioni per l’Iran del Jcpoa
Non regge neppure l’affermazione circa la natura “one sided” a favore dell’ Iran del  Jcpoa. In realtà sono molto consistenti le riduzioni (da 10.000 kg a soli 300) delle scorte di uranio arricchito e del numero di centrifughe (da 15.000 circa a 5.600) che l’ Iran è chiamato ad effettuare. Punitivi sono anche la  trasformazione dell’impianto di Fordow, non più dedicato all’arricchimento, l’internazionalizzazione  del reattore ad acqua pesante di Arak e l’inasprimento del monitoraggio delle installazioni iraniane da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea).

In realtà l’accordo sarebbe nettamente sbilanciato a scapito dell’ Iran se non fosse per la durata temporanea dell’impegno e per la contropartita della riduzione delle sanzioni che gli Usa si apprestano a reintrodurre. L’ Iran è stato sinora accorto nel non cadere nella trappola di essere esso stesso la causa di un possibile naufragio dell’intesa. È da auspicare che rimanga comunque in piedi la logica virtuosa su cui si basa l’intero accordo che è quella di impedire che l’ Iran accumuli scorte di combustibile nucleare che non rispondono alle sue effettive esigenze energetiche civili: una regola che dovrebbe esser in realtà estesa a tutti i Paesi che vogliano intraprendere la costosa strada della produzione in proprio dell’uranio arricchito, anziché acquistarlo sul mercato.

Trump sostiene che gli Usa abbiano dato miliardi di dollari all’ Iran: non si tratta in alcun modo di un regalo, bensì della restituzione di somme spettanti a Teheran congelate negli Stati Uniti in relazione alle sanzioni.

Il presidente afferma che la decisione di riprendere le sanzioni è avvenuta “dopo consultazioni con alleati ed altri partners”. Alcuni di questi sono stati in effetti consultati ma essi hanno cercato di dissuadere Trump dall’abbandonare l’impegno. Se si eccettuano Israele e l’Arabia Saudita, gli altri amici ed alleati hanno successivamente deprecato il preannunciato ritiro dal Jcpoa da parte degli Usa.

La posizione degli alleati europei
A differenza di quanto sostiene Trump nel preconizzare una collaborazione con gli alleati per un nuovo accordo, la sua decisione ha in realtà un forte impatto negativo sui rapporti transatlantici solo comparabile allo scontro con gli europei avvenuto nel 2003 in occasione dell’intervento americano in Iraq. La differenza è che mentre allora gli europei erano divisi nel contrastare l’azione americana, questa volta l’Europa è unita nel difendere l’accordo con l’ Iran.

Al centro delle divergenze con Trump vi sono non solo l’elementare necessità di mantenere l’impegno assunto e il rispetto della  risoluzione Onu che lo recepisce, ma anche formidabili interessi economici ed industriali. La sola Italia è riuscita a negoziare un programma di forniture che potrebbe arrivare a 27 miliardi di euro. Queste importanti prospettive rischiano di andare in fumo se Trump, oltre a denunciare l’accordo, introdurrà le preannunciate “forti sanzioni contro ogni nazione che aiuti l’ Iran nella sua ricerca di armi nucleari”. Molto dipenderà da come Trump interpreterà questa minaccia. È da prevedere che egli non sarà comunque tenero nei confronti di chi cercherà di mantenere il proprio business o si sostituirà alle imprese americane costrette ad uscire dal mercato iraniano.

Nel febbraio scorso lo Istituto Affari Internazionali organizzò a Milano assieme allo Studio Ntcm un convegno sulle prospettive di risposta a una possibile rottura del Jcpoa. È arrivato il momento di dare attuazione a quanto predisposto allora per proteggere il sistema Italia da possibili azioni punitive americane. Una risposta efficace può però solo partire da uno sforzo congiunto a livello europeo mantenendo la linea di fermezza che l’Alto Rappresentante dell’Unione europea Federica Mogherini ha coerentemente adottato sin dall’inizio di questa vicenda. La posta in gioco è questa volta la stessa credibilità della politica estera e di sicurezza dell’Unione.