Corea: il vertice con Kim sull’altalena di Trump
Il processo di pace nella penisola coreana ha subito un improvviso arresto per la cancellazione del summit di Singapore tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti annunciata da Donald Trump. L’annullamento del vertice, originariamente in programma il 12 giugno, ha suscitato molte perplessità negli ambienti diplomatici internazionali. Benché possa trattarsi di un bluff da parte dell’amministrazione Trump per alzare la posta in gioco, la notizia ha comunque causato scompiglio nella controparte nordcoreana e confusione nell’alleato sudcoreano, il quale ha dichiarato di essere “perplesso” dalla “spiacevole e sventurata” decisione di annullare il summit.
In risposta a questo improvviso stallo nel processo di pace, il leader sudcoreano Moon Jae-in ha organizzato un bilaterale a sorpresa con Kim Jong-un, sabato 26 maggio, per discutere la possibilità di riprendere le trattative con Washington e mantenere lo storico summit di Singapore.
L’impegno dimostrato da Moon nel salvare la trattativa dimostra come la Corea del Sud abbia bisogno della pace nella penisola per due motivi principali: il primo è la necessità di avere accesso a nuovi mercati nella propria regione – specificamente quelli di Cina e Corea del Nord -; il secondo è la necessità di distaccarsi in maniera progressiva dall’ingombrante e sempre meno utile egemonia statunitense, che col passare del tempo si è trasformata in una relazione che pone molti vincoli e sempre meno benefici, soprattutto dal lato economico, come dimostrato dalle recenti restrizioni alle esportazioni verso il mercato americano.
Una lettera irrituale
Il summit di Singapore è stato cancellato per mezzo di una missiva inviata da Trump a Kim Jong-un. Nella lettera, Trump dice di aver preso la decisione di cancellare il meeting per via “della rabbia e della tremenda ostilità dimostrata” in recenti dichiarazioni dal leader nordcoreano. La lettera continua riferendosi direttamente a Kim: “Tu parli del tuo potenziale nucleare, ma il nostro è così massiccio e potente che prego Dio non debba essere mai usato”; e conclude dicendo: “Se tu dovessi cambiare idea riguardo questo importantissimo summit, ti prego di non esitare a chiamarmi o scrivermi. Il mondo, e la Corea del Nord in particolare, hanno perso una grande opportunità per una pace duratura e grande prosperità e benessere. Questa opportunità persa è un momento veramente triste della storia.”
Il linguaggio usato da Trump nella lettera è abbastanza informale e poco convenzionale se paragonato al protocollo ufficiale che viene generalmente usato nella corrispondenza diplomatica. A parte l’ ambiguità di alcune frasi che lasciano troppo spazio all’interpretazione, vista la mancanza di riferimenti specifici a fatti o cose, ciò che causa meraviglia sono due punti in particolare. Il primo è la minaccia diretta al leader nordcoreano, alludendo al potenziale nucleare statunitense e al danno incalcolabile che potrebbe causare se mai dovesse essere usato. Il secondo punto è l’invito a contattare la Casa Bianca nel caso in cui Pyongyang cambiasse idea riguardo al meeting, richiesta abbastanza strana se si considera che la cancellazione è stata voluta dall’amministrazione statunitense.
La risposta di Kim non si è fatta però attendere, nel ribadire la “ferma volontà” di incontrare il presidente Usa, facendo così tornare in carreggiata la possibilità che il meeting a Singapore alla fine si tenga.
La polemica sul “modello libico”
Il tono informale, il gioco al rialzo, le smentite improvvise, il comportamento incostante ed eccentrico e le minacce apocalittiche sono messaggi a cui Trump ci ha ormai abituato dopo un anno e mezzo di presidenza. Se la situazione non fosse così drammatica verrebbe da fare della facile ironia e dire che Trump è fermo agli anni Settanta, sia per il modo di fare politica con elementi come la madman theory e la brinkmanship, che per il lato estetico con la sua affezione “alle discese ardite e le risalite”.
Ma fare dell’ironia in questo contesto non è facile, ed a questo punto il rebus della crisi nordcoreana si complica, perché si aggiungono le variabili della strategia e degli obiettivi dell’amministrazione Usa, che risultano poco chiari da decifrare usando gli schemi tradizionali d’analisi della politica estera. In particolare, l’incertezza sorge se si tengono in considerazione i seguenti elementi: la concessione nordcoreana con lo smantellamento del sito di test nucleari del poligono di Punggye-ri; la disponibilità dimostrata fino a questo punto da Kim, venuta meno solo di recente come reazione alle provocazioni americane.
Più precisamente, ad innervosire Pyongyang sono state le continue esercitazioni militari congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, e le dichiarazioni del consigliere per la sicurezza nazionale statunitense John Bolton – ribadite dal vicepresidente Mike Pence – sul “modello libico” come esempio da seguire per il processo di denuclearizzazione e disarmo della Corea del Nord.
Ovviamente, l’allusione alla Libia e l’associazione di idee Kim come Gheddafi non sono state gradite a Pyongyang. Inoltre, il paragone non regge perché il contesto geopolitico e storico della Libia è totalmente differente da quello della Corea del Nord. A differenza della Libia, la Corea del Nord gode ancora del supporto politico della Cina, che nonostante sembri tenere un ruolo defilato nella crisi, in realtà continua a seguire la vicenda molto da vicino, muovendo le fila delle decisioni nordcoreane.
L’errore dell’esclusione della Cina dal processo di pace
Il ruolo di Pechino nella crisi nordcoreana è l’altro grande nodo da sciogliere che l’amministrazione Trump sembra volutamente trascurare. Sicuramente, la marginalizzazione politica della Cina avvenuta nell’ultima fase delle trattative ha influito in maniera negativa sull’esito del processo di pace nella penisola. L’errore è tanto strategico quanto diplomatico.
Infatti, quando Trump iniziò le trattative con la Corea del Nord, subito dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, si rivolse alla Cina per ottenere un canale di comunicazione e mediazione con Pyongyang che fino ad allora rimaneva avvolta in un clima di enigmatico isolamento. Il recente meeting a Panmunjom tra le due Coree era servito a tirare fuori Pyongyang dall’anacronistico stato di isolamento internazionale in cui si trovava, ma avrebbe dovuto lasciare inalterato il delicato equilibrio geopolitico della regione. Le recenti frizioni tra Stati Uniti e Cina, culminate nella dichiarazione di intenti comune di non voler iniziare una guerra commerciale, hanno rivelato il clima di insoddisfazione che si respira a Pechino per la non necessaria aggressività e l’incoerenza dimostrate dall’amministrazione Trump.
Quello che l’ attuale amministrazione statunitense sembra non accettare – o forse non capire – è la nuova struttura del sistema internazionale, che contrariamente al periodo immediatamente successivo alla fine della Guerra Fredda è multilaterale. Così come dice Fareed Zakaria nel suo libro The Post American World, nel nuovo sistema internazionale non è l’America ad aver perso potere, ma più che altro sono i nuovi attori ad averne progressivamente guadagnato, e ciò è dovuto alla globalizzazione che ha aperto quasi tutti i mercati mondiali, generando nuove opportunità di sviluppo e di crescita economica che finalmente si sono tradotte in una maggiore capacità politico-militare.
Imperialista, non egemone
Henry Kissinger ha definito la Cina come l’egemone silenzioso, e non si sbagliava; nonostante le autorità cinesi abbiano sempre sottolineato che il ruolo di egemone del sistema internazionale non è uno dei loro obbiettivi in assoluto. Quando Antonio Gramsci teorizzò l’egemonia si preoccupò di distinguerla dall’imperialismo, essendo la prima risultato della cooptazione e dell’inclusione in maniera non violenta di un soggetto politico dentro una struttura di gestione del potere.
L’imperialismo invece implica coercizione e sottomissione al dominio per mezzo dell’ uso della forza. Gli stessi concetti sono stati ripresi in epoca più recente da Joseph Nye, che li ha riadattati alla sua visione liberale nella teorizzazione del potere con le definizioni di soft e hard power. Soft power è l’uso della persuasione e della cooptazione per creare delle relazioni clientelari che in conclusione beneficiano entrambe le parti. Hard power è invece l’uso della forza e della coercizione per ottenere un risultato ben preciso.
Da notare come sia Gramsci che Nye sottolineano che l’uso della coercizione non corrisponda necessariamente all’uso della forza militare; al contrario, l’uso della forza militare può sortire gli effetti della cooptazione se usato in maniera soft, vale a dire per difendere o per proteggere una vittima dall’aggressione ingiustificata di una terza parte. Ma ultimamente in quasi ogni occasione, come nel caso delle trattative con l’Iran e la Corea del Nord, l’amministrazione statunitense ha mostrato solo la faccia dura del potere – quella imperialista e autoreferenziale – che poco o nulla si addice al ruolo di egemone ed è in totale contraddizione con l’idea di pax americana.