Armenia: dalla piazza alla svolta, la vittoria della protesta
Torna la calma a Yerevan dopo due settimane di inarrestabili proteste, fra atti di disobbedienza civile, scioperi e manifestazioni di piazza di un’entità numerica senza precedenti nella pur giovane storia della terza Repubblica armena, nata con la dissoluzione dell’Unione sovietica.
Ma è solo una calma apparente, e la crisi in Armenia è con ogni probabilità ancora lontana da una soluzione. La protesta ha radici lontane, che affondano nel diffuso malcontento nei confronti di una classe politica corrotta e adusa a una gestione grettamente familistica e personalistica del potere, il cui esito appare incerto. Questo nonostante lo stallo verificatosi il 1° maggio con la mancata elezione del leader della protesta, Nikol Pashinyan, come nuovo premier ad interim, sembri essere vicino a una soluzione, dopo l’annuncio che il Partito repubblicano – maggioranza in parlamento – dovrebbe sostenerlo nella nuova votazione, prevista per l´8 maggio.
Un Gattopardo a Yerevan?
I toni trionfalistici, gli entusiasmi forse troppo affrettati utilizzati in Armenia (e non solo) dopo le dimissioni del primo ministro e già ex-presidente Serj Sargsyan appaiono oggi in parte ridimensionati, e se la protesta sembra crescere anziché scemare, la tensione appare sempre più palpabile a Yerevan. Se mai ci sarà una vittoria dell’opposizione, questa è ancora lontana.
Il rischio è che dietro quella che è stata chiamata una “rivoluzione di velluto” aleggi lo spirito del Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», sembrano quasi voler auspicare, almeno a vedere le mosse compiute in questi ultimi giorni, gli esponenti dell’establishment politico ed economico armeno. Certo è che la strada per giungere ad un cambiamento effettivo degli equilibri sociali ed economici, oltre che naturalmente politici, sui quali si sorregge la piccola e fragile Armenia, è ancora molto lunga.
Troppo capillare la corruzione, che investe dai gradi più alti a quelli più bassi la macchina statale, troppo diffuso il malaffare, in un Paese in cui il confine fra criminalità e business pare spesso decisamente impalpabile.
Il risveglio dei manifestanti
Ed è così che, anno dopo anno, prima nell’indifferenza generale della comunità internazionale e poi, almeno a partire dalle proteste del 2015, in modo sempre più visibile anche all’estero, la rivolta armena ha assunto dimensioni sempre più imponenti, fino a giungere allo zenit di partecipazione sociale e di impegno cui stiamo assistendo oggi.
Protesta dopo protesta, la piazza armena è stata in grado di creare i suoi leader, di elaborare strategie, simboli e una nuova coscienza politica. Certo, anche ammesso che questa nuova generazione di politici e attivisti riesca a prendere il potere, rimangono molte incertezze relative alla loro inesperienza e ai possibili esiti del loro operato.
Ma non mancano i segnali positivi che denotano una maturità in parte già raggiunta, come il ricorso sistematico alla pratica della disobbedienza civile, che ha impedito alla frustrazione popolare di trovare sbocchi potenzialmente violenti, come era già capitato nel 2016 con la presa di una stazione di polizia a Yerevan da parte di un gruppo armato che si opponeva al governo.
Va comunque riconosciuto come anche le forze dell’ordine e l’attuale leadership politica abbiano questa volta almeno in parte contribuito, contrariamente al passato (si ricordino in particolare i morti nelle proteste del 2008) a non far esplodere la tensione. Difficile però immaginare se si tratti solo di una strategia momentanea o di una pratica che proseguirà immutata anche nei prossimi giorni. Perché quanto è oggi in ballo è davvero molto, almeno per la piccola Armenia.
Ciò che chiede la piazza non è solo un cambiamento di facciata, ma un mutamento profondo e radicale che metta in discussione lo strapotere dell’esigua classe degli oligarchi, che dall’indipendenza ad oggi hanno stritolato l’economia armena a suon di monopoli, impedendo a una classe media di emergere, in un Paese sempre più polarizzato fra pochissimi ricchi e una larga di maggioranza di poveri, spesso in condizioni critiche. E sono in particolare i giovani, non a caso, a spingere per un cambiamento che possa dare dignità al loro impegno, agli studi e al lavoro, in un contesto in cui l’unico modo per affermarsi socialmente rimane ancora oggi la rete di conoscenze personali o familiari che si possa vantare, anziché i meriti.
Lo strapotere della Russia
Questa la chiave di lettura fondamentale per interpretare quanto sta avvenendo oggi in Armenia, in attesa del secondo passaggio parlamentare di Pashinyan, per cui ha nel frattempo assicurato che voterà anche il Partito repubblicano, forza di maggioranza di cui è espressione il “deposto” Sargsyan.
In secondo piano invece, almeno fino a questo momento, sono le possibili ripercussioni geopolitiche degli eventi in corso. Se da un lato è importante registrare le parole ampiamente distensive del leader della protesta (e premier in pectore) Pashinyan nei confronti di Mosca e della sua egemonia indiscussa nel Paese, da parte sua il Cremlino si è mantenuto equidistante, pur se interessato, nei confronti di quella che ha definito una questione interna armena.
Certo è che se un cambiamento effettivo, e non solo un ricambio ai vertici di potere, dovesse davvero avere luogo, l’intero assetto sociale e politico potrebbe essere rimesso in discussione, incluso lo strapotere russo in Armenia, alleato sempre rimasto fedele a Putin nella sfera post-sovietica.
Ma ancora molta acqua deve passare sotto i ponti di Yerevan, nella speranza che i flutti del suo fiume non si tingano di sangue.
Foto di copertina © Ani Djaferian via ZUMA Wire