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Questione nodale

Afghanistan: Trump non riesce a liberarsi dell’eredità di Obama

27 Mag 2018 - Andrea Jorma Buonfrate - Andrea Jorma Buonfrate

L’eredità maggiormente gravosa tramandata all’Amministrazione Trump dall’ex presidente Usa Barack Obama, rimane tutt’oggi la gestione dello Stato mediorientale dell’ Afghanistan. Situato alle spalle del nemico storico degli Stati Uniti, l’Iran, lo Stato afghano, coinvolto in un conflitto che dura ormai da 17 anni, fa fatica a tornare alla normalità, soprattutto per la mancanza di un governo stabile, nonostante il supporto logistico concesso delle truppe statunitensi e alleate sul territorio. Una difficoltà oggettiva in quello che viene definito capacity building[1].

Il cambio di gestione del territorio afghano
L’intervento americano e della Nato iniziato nell’ottobre del 2001, per punire i responsabili dell’attentato delle Torri Gemelle (i terroristi di Al Qaida), ha visto l’avvicendarsi di ben tre presidenti Usa (Bush jr., Obama e Trump), ha subito una modifica degli obiettivi nel 2009 e nel 2015. Ma ancora oggi lo Stato mediorientale non ha trovato una sua stabilizzazione.

La strategia di Trump di dare carta bianca al segretario della Difesa Jim Mattis ha portato le truppe americane ad invertire la tendenza dell’amministrazione di Obama, con un notevole aumento (circa 9.800 truppe Usa con sostegno di 13.000 unità internazionali). Tuttavia, Mattis ha assicurato che l’aumento è da imputare a un maggiore impiego delle forze dell’addestramento delle truppe afghane, come strumento per contenere la violenza nel Paese.

Questo ha portato Mattis a modificare in agosto le regole d’ingaggio delle truppe statunitensi e ad integrare speciali gruppi di intelligence all’interno delle forze regolari afghane, soprattutto ai livelli inferiori.

Diciassette anni dopo
Tuttavia, Donald Trump, in modo piuttosto realista, ha chiaramente affermato in un tweet d’avere cambiato opinione sul futuro delle truppe americane in Afghanistan, scrivendo “Il popolo americano è stanco di una guerra senza vittoria”. Una tesi confermata dallo stesso segretario alla Difesa Mattis.

La situazione corrente nel Paese conferma la previsione negativa del governo, con nessun obiettivo della Casa Bianca ancora raggiunto. Infatti, i Talebani ancora controllano un territorio abbastanza ampio, forse anche maggiore di quello controllato negli anni precedenti, e il terrorismo interno e dai Paesi limitrofi (soprattutto dal Pakistan) si dimostra resistente alle contromisure dell’intelligence congiunta Usa – Afghanistan.

Una situazione, la seconda, forse più rilevante, considerando la difficoltà odierna nella gestione di fenomeni terroristici che si diffondono a livello globale. In questo senso, Trump intende rafforzare il governo di Mohammed Ashraf Ghani, leader a Kabul dal 2014, il cui controllo territoriale viene minacciato dalle pressioni esercitate dai Talebani sul governo afghano.

Un ‘surge’ pianificato da Trump
Con 14.300 truppe dispiegate in Afghanistan per la missione Resolute Support e circa 715 miliardi di dollari a sostegno del governo afghano, la politica di Trump nei confronti dello Stato mediorientale si fa più incisiva. Il presidente ha infatti chiarito che avverrà un “surge[2]” da 3.500 a 5.000 contractors verso l’ Afghanistan, in modo da poter eliminare la minaccia terroristica in modo concreto.

Un obiettivo che si colloca in linea con la strategia generale del comando Usa, ma che sottintende un tentativo di ridurre le forze degli insorti per portarle al dialogo con le forze governative. Trump ha infatti sostenuto che l’appoggio delle truppe statunitensi “non sia un assegno in bianco”, ma anzi che abbia una scadenza, superata la quale c’è solo il ritiro dallo Stato da parte degli Usa, a meno che non siano messe in atto riforme a livello governativo.

Un futuro incerto oltre gli Stati Uniti
Il futuro dello Stato afghano non è facilmente tracciabile. L’impegno degli Stati Uniti dimostra che il Paese ad oggi ancora non riesce a trovare un equilibrio senza la mediazione di un alleato esterno. Una circostanza che si realizzerà una volta che il conflitto tra il governo di Ghani e gli insorti legati ai Talebani sarà terminato.

La questione si sposta così sul piano diplomatico della mediazione, con Paesi come la Cina (la quale ha investito parecchio nella regione attraverso il progetto della nuova Via della Seta) e la Russia (la quale gestisce i problemi al confine con il traffico di stupefacenti verso gli Stati dell’ex Unione Sovietica) intenti a ritagliarsi un posto come mediatori.

Ancora una volta, ci si rende conto dell’importanza strategica che occupa lo Stato afghano nella regione ed il braccio di ferro tra Cina e Russia al riguardo ne è una conferma. Se gli Stati Uniti vorranno mantenere la loro posizione privilegiata all’interno dell’ Afghanistan dovranno considerare la possibilità di aprire un tavolo negoziale più ampio o abbandonare del tutto i propri obiettivi.

[1] – Definito come la possibilità per un Paese di sostenere un cambiamento nella struttura del governo dopo un evento traumatico, come una guerra o un cambio di regime.

[2] – Dall’inglese “aumento improvviso”.