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Midterm 2018 e presidenziali 2020

Usa: Ryan esce di scena (per preparare il ritorno?)

19 Apr 2018 - Stefano Graziosi - Stefano Graziosi
Paul Ryan esce di scena. Qualche giorno fa, l’attuale speaker della Camera ha annunciato la sua intenzione di non ricandidarsi alle elezioni di midterm del 6 novembre e che – quindi – lascerà definitivamente l’incarico il prossimo gennaio. La notizia è esplosa con una certa virulenza in seno a un partito, quello repubblicano, che si sta preparando – non senza affanno – alle elezioni di metà mandato (quando si rinnoverà, per l’appunto, la totalità della Camera e un terzo del Senato).
Nonostante le motivazioni fornite da Ryan per la sua scelta facciano principalmente riferimento a questioni di carattere famigliare, le conseguenze politiche di questo annuncio potrebbero rivelarsi piuttosto rilevanti. E nell’elefantino si respira un certo nervosismo. Secondo alcuni, l’addio di Ryan risulterebbe un pessimo segnale per il partito: un duro colpo al morale dei repubblicani, che si ritroverebbero senza una chiara guida parlamentare e che potrebbero in particolare avviarsi verso una sconfitta alla Camera. Per altri, non si tratterebbe di una catastrofe, ma tutto ciò evidenzierebbe comunque una situazione preoccupante per il Grand Old Party.
Motivazioni famigliari e percorsi politici
D’altronde, questa uscita di scena sembrerebbe segnare l’ultimo atto della carriera parlamentare di Ryan. Una carriera difficile, a tratti tortuosa e ricca di notevoli contraddizioni. Entrato giovanissimo alla Camera nel 1998, il cattolico deputato del Wisconsin era un conservatore di ferro. Proponeva difatti un’energica detassazione, una riduzione del peso dello Stato e un taglio all’assistenzialismo pubblico: in particolare era solito contrapporre i “makers” (gli imprenditori coraggiosi) ai “takers” (gli assistenzialisti parassiti). Una linea netta, che lo differenziava da altri cattolici del suo partito (tendenzialmente collocati più al centro sui temi sociali ed economici).
D’altronde, fu proprio per il suo conservatorismo che, nel 2012, venne scelto dall’allora candidato repubblicano, Mitt Romney, come suo vice nella corsa elettorale verso la Casa Bianca. Considerato infatti come troppo moderato, Romney vide non a caso in Ryan il nome ideale per cercare di accattivarsi le simpatie degli ultraconservatori. La débacle elettorale che ne seguì segnò profondamente Ryan, che – rimasto alla Camera – mostrò quasi una conversione politica: non solo moderò molte delle sue posizioni ma iniziò anche a tentare di rivolgersi a nuove aree elettorali, in barba alla ferrea ortodossia repubblicana. L’idea era difatti probabilmente quella di reinventarsi politicamente per cercare, prima o poi, di puntare alla Casa Bianca. Il destino tuttavia decise diversamente.
Le dimissioni di Boehner e l’ascesa di Ryan
Nel 2015, i repubblicani alla Camera si spaccarono a causa dell’ennesima crisi interna, che vedeva contrapposto il fronte moderato a quello radicale del Tea Party. Lo scontro, durissimo, portò alle dimissioni dell’allora speaker, John Boehner, che veniva additato dai conservatori come un ignobile centrista, costantemente pronto all’ ‘inciucio’ con il nemico democratico. Per uscire dallo stallo, le alte sfere dell’elefantino pensarono di puntare proprio su Ryan, considerato come l’uomo ideale per cercare di trovare una sintesi adeguata tra le varie correnti che dilaniavano il partito.
La prospettiva non lo allettava particolarmente. Non a caso, cercò di evitare in ogni modo di assumere questo incarico. E ciò essenzialmente per due ragioni. Innanzitutto perché l’ultimo speaker della Camera a diventare presidente degli Stati Uniti fu James Polk, nel 1845. In secondo luogo perché – soprattutto in quel momento – le faide tra i repubblicani alla Camera risultavano particolarmente numerose. Ryan temeva per questo di rimanere invischiato in un pantano, finendo con l’acquisire null’altro che impopolarità (soprattutto tra le frange più destrorse dell’elefantino). Alla fine accettò per disciplina di partito. E ha cercato di guidare i repubblicani nella tempesta. Con qualche risultato e non pochi grattacapi.
I rapporti con Trump, dalla contrapposizione alla collaborazione
Grattacapi che si intensificarono particolarmente pochi mesi dopo, in occasione delle primarie repubblicane. Quando, a febbraio del 2016, Donald Trump vinse le primarie del New Hampshire e iniziò così la propria cavalcata, Ryan si mise di fatto alla testa dei suoi oppositori interni. Le polemiche con l’allora battistrada si sprecavano, mentre qualcuno addirittura ipotizzò una sua possibile (per quanto tardiva) discesa in campo, qualora nessun candidato fosse riuscito a ottenere abbastanza delegati per conquistare la nomination. Per questo, insieme ad altri nomi di peso come Mitt Romney e il giornalista neoconservatore Bill Kristol, iniziò a ripetere una serie di tiritere sui valori traditi del partito che fu di Lincoln e Reagan. Strategia invero poco efficace, che gli attirò le ire della base e non sbarrò comunque la strada a Trump, che – a novembre di quell’anno – si ritrovò alla fine presidente degli Stati Uniti.
Preso atto dell’accaduto, allo speaker non restò che far buon viso a cattivo gioco. E iniziare una, seppur tormentata, collaborazione con il nuovo inquilino della Casa Bianca. In particolare, i due hanno stretto un’alleanza sulla riforma fiscale, definitivamente approvata lo scorso dicembre. Una riforma che lo stesso Ryan considera uno dei risultati più rilevanti della propria presidenza. Una presidenza che, sotto altri aspetti, ha deluso non poco le aspettative dell’elettorato repubblicano: sia perché, in barba ai suoi principi, lo speaker si è trovato a dovere sostenere provvedimenti di aumento della spesa pubblica; sia perché in due anni di attività non è riuscito ad abolire la tanto odiata riforma sanitaria di Barack Obama.
Interrogativi e inquietudini nel Partito repubblicano
Ora, la dipartita politica di Ryan rischia di mettere seriamente nei guai il Partito repubblicano. Già le faide interne sono all’ordine del giorno. Adesso poi, prevedibilmente, scatterà la lotta per la successione, che aggiungerà ulteriore confusione. In tutto questo, l’elefantino rischia la paralisi interna. E il Partito democratico (che pure di beghe interne ne ha a bizzeffe) potrebbe approfittarne. E, qualora l’asinello riuscisse a riprendere il controllo della Camera, potrebbero addensarsi nere nubi sul destino politico di Donald Trump. Non solo perché rischierebbe di diventare la proverbiale ‘anitra zoppa’. Ma anche perché aumenterebbero le probabilità (invero non eccessive) di un impeachment sul caso Russiagate. Non dimentichiamo infatti che, secondo la Costituzione, il processo di messa in stato d’accusa viene istruito dalla Camera e – solo in un secondo momento –  giudicato dal Senato. Ragion per cui un capovolgimento dei rapporti di forza in seno al Campidoglio potrebbe rivelarsi particolarmente indigesto per il presidente.
Senza poi dimenticare che, secondo qualche malfidato, Ryan avrebbe studiato questa uscita di scena, nutrendo delle ambizioni presidenziali. L’idea potrebbe in sostanza essere quella di ritirarsi temporaneamente dalla ribalta, per attuare poi un comeback (stile Nixon 1968 o McCain 2008). Un ritorno gagliardo, insomma. Forse già per il 2020. Fantapolitica? Forse. Per quanto non sia affatto un mistero che più di un repubblicano stia puntando molto su una sconfitta di Trump alle elezioni di metà mandato, così da potergli contendere la nomination tra due anni.
Una possibilità che il Partito Repubblicano, del resto, già conosce. Nel 1976, per esempio, Ronald Reagan sfidò alle primarie – pur senza successo – l’allora presidente uscente Gerald Ford. E’ probabilmente a questo precedente cui qualcuno sta guardando oggi nell’elefantino: Marco Rubio, Ted Cruz, Ben Sasse. E forse, da oggi, lo stesso Paul Ryan. Purché ne sia capace. Perché alla fine è questo il suo problema: il rischio di rimanere un Reagan amletico, che non è né carne né pesce.