Tunisia: la sfida delle elezioni amministrative del 6 maggio
Si è da poco aperta la campagna elettorale per le prossime elezioni amministrative del 6 maggio in Tunisia. Tra due settimane, finalmente i tunisini voteranno per eleggere i propri rappresentanti locali, per la prima volta dalla caduta dell’ex presidente Ben Ali. Il Paese era stato chiamato alle urne già nel 2011 per l’elezione di un’Assemblea costituente e di nuovo nel 2014 per l’attuale Assemblea dei Rappresentanti del Popolo (Parlamento) e la scelta del presidente della Repubblica.
Più volte posticipate negli ultimi due anni per ragioni politiche e pratiche, queste elezioni rappresentano, anzitutto, una tappa fondamentale nel processo di decentramento del potere e delle risorse previsto dalla nuova Costituzione del 2014. Saranno, inoltre, indicative dei possibili scenari politici in previsione delle legislative e delle presidenziali del 2019.
E, mentre la questione del decentramento in Tunisia rimane alquanto controversa, e la definizione delle prerogative delle autorità locali e centrali è ancora oggetto di discussione in Parlamento, grande incognita resta l’astensionismo. Se, ancora una volta, la competizione sembra prevalentemente una corsa a due tra gli islamisti di Ennahda e i nazionalisti di Nidaa Tounes, il diffuso malcontento per la lenta crescita economica, l’ennesima svalutazione del dinaro e le misure di austerity entrate in vigore con la legge finanziaria 2018, potrebbe riflettersi in un basso tasso di affluenza e in un ampio voto di protesta a favore di candidati indipendenti. Sotto esame, non solo le politiche economiche del governo di coalizione di Youssef Chahed, ma più generale, e in profondità, la natura del sistema politico attuale, ritenuto da più parti, e soprattutto dalla presidenza, alla base dei ‘malfunzionamenti’ della Repubblica tunisina
Le novità elettorali
Sulla scia delle rivolte del 2011, le municipalités (comuni) della Tunisia sono state effettivamente sciolte, e la loro gestione provvisoria affidata alle délégations spéciales. Con queste elezioni si passerà dalla fase di transizione a quella di Consigli locali investiti dalla legittimità delle urne.
Secondo l’ISIE (Alta Istanza Indipendente per le Elezioni), più di 2.000 liste elettorali competono per gli uffici comunali, di cui la maggior parte sono liste di partito (poco più di un migliaio) e indipendenti (all’incirca 800).
Diverse novità accompagneranno questo appuntamento elettorale. Per la prima volta voteranno le forze armate e di sicurezza, seppure dopo un lungo dibattito sulla necessità di mantenerne la neutralità rispetto a qualsiasi schieramento politico; una nuova divisione del territorio che ha visto aumentare il numero delle municipalités (attualmente 350) e ridefinire i confini di quelle già esistenti; l’abbandono dell’uso dell’inchiostro indelebile a cui si era fatto ricorso nei precedenti scrutini per evitare voti multipli e, come forma di discriminazione positiva, oltre alla parità di genere nelle liste, anche la presenza di almeno tre candidati al di sotto dei 35 anni ed un portatore di handicap.
Dall’autorità centrale al decentramento
Con Bourghiba prima, e soprattutto con Ben Ali, la Tunisia ha conosciuto un potere politico fortemente centralizzato, che ha contribuito non poco all’ampio squilibrio nello sviluppo tra le regioni costiere, privilegiate dall’élite politica, e le aree interne e del Sud del Paese, storicamente marginalizzate.
A livello nazionale, dopo le rivolte del 2011 e con la nuova costituzione del 2014, si era cominciato con la (con)divisione dei poteri, tra il palazzo di Cartagine (la presidenza), fino a quel momento polo accentratore, e il Bardo (sede del Parlamento) e la Kasbah (sede del Governo).
Al tempo stesso, la Costituzione aveva gettato le basi anche per il decentramento a beneficio delle autorità locali, prevedendo la devoluzione di alcuni poteri e risorse alle collectivités locales (collettività locali), ovvero i comuni, le regioni e i distretti. Il Capitolo 7 attribuisce, infatti, agli enti locali il diritto “di gestire le proprie risorse liberamente”, contemplando anche un controllo, ma a posteriori, della legalità del loro operato.
Prevede, inoltre, un Consiglio superiore delle autorità locali, con sede nella capitale, per rappresentare gli enti governativi locali a livello nazionale, in particolare sulle questioni relative allo sviluppo e all’equilibrio tra le diverse regioni. Tale decentramento, è stato concepito anche per garantire una più ampia partecipazione dei cittadini alla gestione delle risorse locali.
Se, da una parte, i detrattori del decentramento temono che l’autonomia decisionale possa minare all’unità delle neo-istituzioni statali, e che possa favorire la corruzione a livello locale senza troppo controllo da parte dell’autorità centrale, d’altro canto, i suoi sostenitori sottolineano come i funzionari eletti democraticamente possano garantire più efficacemente a livello nazionale la rappresentanza di istanze locali e che l’autonomia amministrativa e finanziaria, attraverso una più equa e mirata ripartizione delle risorse, meglio consenta di fare fronte ai problemi economici e sociali che attanagliano in particolare le aree marginalizzate del Paese.
Il decentramento tra incognite e ritardi
In tutto ciò, non è stato ancora approvato nella sua interezza il nuovo Codice delle Collettività locali, che dovrebbe fornire il quadro giuridico per le modalità di gestione dell’autonomia locale, definendone e delimitandone, tra le altre cose, le competenze esclusive, quelle condivise con lo Stato centrale e quelle delegate (agli inizi di aprile 2018, solo 28 articoli su un totale di 392 erano stati approvati dall’Assemblea nazionale).
Nonostante l’accelerazione dei lavori parlamentari nelle ultime settimane, il Codice rischia di non vedere la luce prima delle elezioni amministrative. In tal caso, all’indomani del 6 maggio, i neo-eletti consigli comunali, espressione dell’autonomia locale, si ritroverebbero senza un quadro legale, un’autorità ben definita e le relative coperture economiche.
A preoccupare anche un basso tasso di affluenza e l’indecisione degli elettori verso candidati indipendenti piuttosto che per i principali partiti. Tale scenario potrebbe, infatti, indebolire ulteriormente la legittimità dell’attuale struttura di governo e rimarcare il senso di sfiducia che diversi sondaggi e le manifestazioni di piazza esprimono nei confronti della classe politica attuale, rafforzando indirettamente le posizioni di chi, da un po’ di tempo, preme per una riforma elettorale in senso maggioritario e una revisione della Costituzione per rafforzare le prerogative presidenziali.
Se all’indomani della “rivoluzione della libertà e della dignità”, che aveva posto fine all’autoritarismo di Ben Ali, in Tunisia si era optato per un sistema elettorale altamente proporzionale e un ibrido semi-presidenziale per limitare la concentrazione di potere nelle mani di un unico attore politico, che fosse un singolo uomo o un partito, sempre più si è fatta strada nel dibattito politico e nell’opinione pubblica la convinzione che questa macchina democratica così concepita dalla Costituzione sia alla base dei ritardi e della difficoltà nell’attuazione delle riforme.