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Pugno duro di Pechino

Taiwan: gli indipendentisti sognano il referendum, Xi li gela

4 Apr 2018 - Serena Console - Serena Console

Con le testate di tutto il mondo concentrate sullo storico incontro del leader nordcoreano Kim Jong-un con il presidente cinese Xi Jinping a Pechino, le parole pronunciate da Xi pochi giorni prima nel discorso di chiusura dell’Assemblea nazionale del popolo sono quasi finite in secondo piano.

Nulla di inaudito, nella narrativa cinese: nella Grande sala del popolo, Xi aveva indirizzato le sue parole sulla sovranità e territorialità alle forze indipendentiste di Xinjiang – la regione a maggioranza musulmana nel nord del Paese -, Hong Kong e Taiwan.

“Saremo costretti a salvaguardare la sovranità e l’integrità territoriale della Cina per raggiungere la piena unificazione della madrepatria, perché questa è l’aspirazione dell’intero popolo cinese”, ha sentenziato in quell’occasione Xi, il presidente ormai pressoché eterno. Un’affermazione volta ad ammonire i moti indipendentisti sul territorio cinese. E per territorio cinese, Pechino considera soprattutto l’isola di Taiwan. Anche dal premier Li Keqiang sono arrivate parole dure: “Non possiamo tollerare alcun sentimento indipendentista taiwanese”.

La questione di Taiwan, come quella di Hong Kong, è vista con disagio dalla leadership cinese che, da tempo, cerca di gestire le rivendicazioni con metodi che violano anche la carta costituzionale taiwanese.

Parlare a Taipei perché Washington intenda
Ma perché la leadership cinese alza i toni proprio verso Taiwan? Taipei e Pechino non hanno avuto sempre rapporti felici, incrinati soprattutto con l’arrivo al potere nel 2016 di Tsai Ing-wen come presidente della Repubblica di Cina.

Ma tra le due, a complicare le cose, entra a gamba tesa Washington. Già nel dicembre 2016 – prim’ancora di prestare giuramento -, il presidente Donald Trump aveva avuto una telefonata con la presidente Tsai, interrompendo un silenzio iniziato il 1979, quando gli Stati Uniti decisero di interrompere i rapporti con Taiwan dopo il riconoscimento della politica dell’“unica Cina” a favore di Pechino.

La Cina guarda con attenzione cosa accade al di là dello stretto di Taiwan e osserva le mosse dell’amministrazione americana, in particolare da quando Trump ha firmato il Taiwan Travel Act, decreto che incoraggia gli scambi tra funzionari statunitensi e taiwanesi a tutti i livelli. Il primo via agli incontri tra alti funzionari dei due paesi è del 21 marzo scorso, con l’arrivo a Taipei di Alex Wong, il vicesegretario di Stato per gli affari dell’Asia orientale e dell’area del Pacifico.

Foto di rito, strette di mano e grandi sorrisi per confermare che il sostegno americano per Taiwan, per la sua sicurezza e democrazia “non è mai stato così forte”.

Pechino non ha accolto positivamente il Taiwan Travel Act, tanto che il Global Times, quotidiano vicino alle linee del Partito comunista, ha invitato la Cina a prepararsi a uno scontro diretto nello stretto di Taiwan. Così, all’indomani della prima visita del funzionario americano, il ministero della Difesa taiwanese ha comunicato l’invio di navi e aerei da combattimento per controllare il gruppo da battaglia della portaerei cinese Liaoning, in transito proprio nello stretto.

Sembra che Taipei non si voglia far cogliere di sorpresa, e già dallo scorso ottobre il Partito democratico progressista, guidato dalla presidente Tsai, sta lavorando al piano di budget per la difesa dell’isola fino al 2025, con un aumento del 2% del Pil su base annua.

La campagna referendaria
Mentre Pechino intimidisce Taipei mostrando i muscoli, gli abitanti dell’isola pensano al 6 aprile 2019, data simbolica scelta dalle forze democratiche ed indipendentiste taiwanesi per tenere un referendum sull’autodeterminazione: il prossimo anno infatti, ricorrerà il trentesimo anniversario della morte di Cheng Nan-jung, sostenitore dell’indipendenza dell’isola immolatosi il 7 aprile 1989 davanti alle telecamere della Formosa TV, in difesa della libertà di espressione e contro le forze del Kuomintang.

La campagna per indire il referendum sull’indipendenza è stata lanciata a fine febbraio, in una conferenza stampa a cui hanno partecipato molti leader indipendentisti, tra cui anche gli ex presidenti della Repubblica di Cina Lee Teng-hui – che dopo la cacciata da Kuomintang si è avvicinato alle forze della coalizione indipendentista – e Chen Shui-bian.

Lee, accusato dal Kuomintang di sostenere il governo del suo successore democratico Chen e la causa dell’indipendenza taiwanese, ha dichiarato che il referendum è “l’arma più potente” per garantire al popolo di Taiwan di vivere in un “Paese normale”, con il nome ufficiale di Taiwan e una nuova Costituzione.

In tal modo, l’ex isola di Formosa potrebbe presentarsi globalmente con il nome di Taiwan – ha detto Lee – abbandonando quel titolo ufficiale (Repubblica di Cina) che intrappola Taipei al riconoscimento di soli 20 Paesi nel mondo. A fare eco alle parole di Lee è Chen, che ribadisce che “Taiwan non è Cina” e che i taiwanesi devono usare “il diritto di voto per mostrare al mondo volontà e determinazione, senza mai cedere al Partito comunista cinese”.

Voto e minacce d’intervento militare cinese
Un percorso lungo e difficile, nonostante il Referendum Act del dicembre 2017 abbia introdotto nuove disposizioni, tra cui l’abbassamento della soglia di partecipazione e la riduzione del numero di firme per avviare un plebiscito. Tuttavia, i referendum non sono strumento valido per modificare la Carta costituzionale, comprese le questioni di sovranità.

Pertanto, i sostenitori referendari hanno invitato l’amministrazione di Tsai a modificare la legge sui referendum affinché il voto popolare sia applicato anche alle questioni di sovranità. Non un gioco facile perché la legge cinese anti-secessione del 2005 stabilisce che qualunque tentativo di legittimare un governo indipendente nell’isola mediante la modifica della Costituzione taiwanese potrebbe avere come conseguenza un’azione militare da parte della Cina.

Foto di copertina © Joel Goodman/London News Pictures via ZUMA Wire