Siria: attacco aggrava paralisi strategica Usa
A un primo esame del bilancio militare e delle reazioni internazionali, si può affermare che l’ attacco missilistico condotto in Siria dagli americani, in collaborazione con forze francesi e britanniche, ha avuto un solo effetto: quello di inasprire le tensioni con Mosca, oltre che ovviamente con il regime siriano e con Teheran. Tale episodio conferma la propensione dell’attuale Amministrazione statunitense a prendere decisioni precipitose e la sua tendenza a reiterare gli errori.
L’azione è stata infatti una versione leggermente ‘rinforzata’ dell’attacco pressoché inutile compiuto l’aprile scorso sulla base militare di Shayrat, dopo un altro presunto impiego di armi chimiche da parte del regime a Khan Sheikhoun.
Nella stessa dichiarazione ufficiale con cui annunciava la nuova azione, il presidente Trump ha inoltre ribadito la propria volontà di ritirarsi dalla Siria, già espressa dieci giorni prima contro il parere del Pentagono, che invece prevede una permanenza militare americana di lungo periodo nel nordest del paese.
Le radici della paralisi
Gli attacchi “una tantum” e la tensione interna all’Amministrazione fra chi, come il presidente, sostiene il disimpegno dalla Siria e chi appoggia le posizioni del Pentagono o addirittura promuove tesi più interventiste, sono solo alcuni esempi della confusione strategica che attualmente regna a Washington.
L’origine di tale paralisi risale in effetti alla prima presidenza di Barack Obama, quando si decise di intervenire in Siria essenzialmente per compiere un’operazione di ‘cambiamento di regime’ sull’onda delle proteste che avevano interessato il Paese nel contesto più ampio delle rivolte arabe scoppiate a partire dalla fine del 2010.
A differenza di George W. Bush, che aveva invaso l’Iraq con forze americane per rovesciare il regime di Saddam Hussein, gli Stati Uniti di Obama, indeboliti proprio da quella disastrosa esperienza e dalla devastante crisi finanziaria del 2008, optarono per un intervento “per procura”, imperniato sulla scelta di addestrare e armare i ribelli siriani con l’aiuto di alleati regionali come Arabia Saudita, Qatar e Turchia.
Ma questo tentativo si rivelò a sua volta fallimentare, favorendo la comparsa o il rafforzamento di gruppi jihadisti, come al-Nusra e l’Isis, e provocando la reazione degli alleati di Damasco – Iran, Russia e Hezbollah – che intervennero nel conflitto.
Un piano irrealistico
L’establishment politico americano, tuttavia, non ha ancora pienamente preso atto di questo fallimento e della necessità di un ripensamento strategico e continua a escogitare aggiustamenti meramente tattici. Questa impasse è ulteriormente aggravata dall’incoerenza e impulsività del presidente, e dal durissimo scontro che all’interno degli Stati Uniti ruota attorno alla sua figura.
Il piano del Pentagono, che punta a sostenere un’entità semi-indipendente a guida curda nel nordest della Siria, si scontra con una serie di fattori che rendono politicamente ed economicamente insostenibile questo progetto. Tale entità è territorialmente isolata e circondata da vicini ostili, ma soprattutto pone Washington direttamente in rotta di collisione con un paese Nato, la Turchia.
Inoltre i curdi all’interno di questa entità si trovano a coabitare con una maggioranza araba che è loro ideologicamente ostile e mal sopporta il predominio curdo. L’avversione di Trump per il nation building fa poi sì che non vi siano fondi per la ricostruzione di aree devastate come quella di Raqqa, mentre i cambiamenti climatici stanno rendendo questa regione sempre più inospitale.
Velleitarismo neoconservatore
Se il piano del Pentagono è irrealistico, malgrado il relativo pragmatismo cui tradizionalmente s’ispirano i vertici militari americani, una schiera ancor più velleitaria è quella costituita da personaggi come l’ambasciatore all’Onu Nikki Haley e il nuovo consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, affiancati da esponenti neocon e da alcuni ‘falchi’ nel Congresso.
Costoro puntano ancora al ‘cambiamento di regime’, per quanto irragionevole possa sembrare, e intendevano sfruttare l’attacco missilistico dello scorso sabato per indebolire il presidente siriano Assad colpendo basi militari e altri obiettivi nevralgici del regime.
Tuttavia, a questo stadio del conflitto, una strategia di tal genere non solo avrebbe come effetto principale quello di ridare fiato all’Isis e ad altri gruppi jihadisti, ma rischierebbe di provocare una pericolosissima escalation con Mosca. La Russia ha investito troppo nel suo progetto di stabilizzazione siriana per lasciare che esso venga distrutto senza reagire.
Il confronto con Mosca
In generale negli Stati Uniti, ma anche in Europa, si tende a sottolineare molto la cosiddetta “assertività” russa e a trascurare il senso di vulnerabilità percepito da Mosca. La prospettiva di ritrovarsi la Nato ai propri confini al termine di una pluridecennale espansione verso est, l’accumularsi delle sanzioni che mettono a rischio la stabilità economica del Paese, la possibilità di un diretto coinvolgimento americano nel conflitto in Siria, stanno alimentando un clima di guerra in Russia. Qualora dovesse sentirsi messa con le spalle al muro, Mosca risponderà.
Questo fatto sembra essere stato parzialmente compreso almeno dal segretario alla difesa James Mattis. L’attacco missilistico di sabato ha avuto un carattere molto limitato innanzitutto per sua decisione, allo scopo di scongiurare una risposta militare russa. Ciò è avvenuto al termine di febbrili negoziati con i vertici militari di Mosca, allorché Mattis è riuscito a imporre il proprio volere sugli ambienti americani più intransigenti e sullo stesso presidente Trump, che aveva chiesto un’azione più incisiva.
Tuttavia, questo nuovo raid missilistico apre potenzialmente la strada a nuovi interventi ogniqualvolta si verificheranno presunti attacchi chimici (siano essi compiuti dal regime, come afferma l’occidente, o dai ribelli proprio per provocare un intervento occidentale, come sostiene la Russia). Se alla Casa Bianca dovesse prevalere la logica per cui anche episodi chimici di piccola entità, corroborati da scarse informazioni di intelligence, comportano un’automatica risposta militare americana, un futuro scontro armato con la Russia potrebbe diventare pericolosamente plausibile.