Siria: dopo l’attacco, interrogativi su strategia e impatto
Donald Trump aveva ‘twittato’ che l’ attacco americano alla Siria sarebbe arrivato. E così è stato. Una sorta di riedizione con varianti di quello condotto nell’aprile 2017, contro la base aerea siriana di Shayrat, distruggendo circa il 20% delle forze aeree di Bashar al-Assad. Questa volta, i missili sparati sono stati oltre cento, contro una sessantina, e Gran Bretagna e Francia hanno partecipato all’azione americana contro tre obiettivi – uno a Damasco e due a Homs – collegati alle capacità chimiche delle forze siriane. Gli interessi russi e iraniani nel Paese non risultano colpiti, l’impatto dell’ attacco è minimizzato dalle fonti siriane.
Se Trump avesse scelto di non agire, gli Stati Uniti sarebbero stati presto costretti ad abbandonare il Medio Oriente, con pericoli gravissimi per la loro preminenza strategica – per recuperare il terreno perduto, potrebbero essere obbligati ad una difficilissima guerra contro l’Iran -. Il non intervento sarebbe stato una scelta fallimentare. Un intervento limitato e insufficiente richiederà presto nuovi interventi, in una situazione però sempre più difficile è degradata. Un intervento con la necessaria decisione ed ampiezza di mezzi comporta il rischio di una escalation pericolosa. Se però gli Usa riusciranno a chiarire al mondo quali sono i loro obiettivi irrinunciabili, è possibile che il mondo li ascolti.
Il minimo sindacale della reazione annunciata
Donald Trump ha scelto la strada dell’attacco mirato, limitato agli arsenali chimici siriani. In tal modo ha anche raggiunto una sorta di tacito accordo con la Russia, impegnandosi a non attaccare direttamente il regime di Bashar al-Assad. Ha così soddisfatto il minimo sindacale della reazione annunciata, senza impegnarsi ad accrescere la presenza americana in Siria. Se poi riuscirà anche a ritirare del tutto la presenza militare americana nel Paese lo vedremo nelle prossime puntate.
Molto soddisfatta è la Russia, che si vede confermata come l’unico serio baluardo che tiene in vita il regime siriano: un ruolo che viene guardato con grande interesse anche molto al di là della Siria, da regimi che temono interventi di “regime change”. Chi invece non può essere del tutto soddisfatto sono gli alleati europei, a cominciare naturalmente da Francia e Regno Unito, che hanno contribuito all’intervento militare.
Quali opzioni per Trump nel Medio Oriente
Il problema è quello di sempre: quale sia la strategia americana in Siria e nel Medio Oriente in genere negli anni di Trump. Apparentemente la preferenza del presidente americano sembra quella di affidarsi ad una coalizione di interessi tattici tra Arabia Saudita, Israele ed altri Stati dell’area del Golfo, più forse l’Egitto, contro le grandi organizzazioni terroristiche e contro l’Iran.
Questa linea non può essere condivisa dagli alleati europei, non solo perché fa carta straccia di ogni tentativo di normalizzazione dei rapporti con Teheran, ma perché potrebbe indebolire la politica di non proliferazione nucleare e soprattutto alimentare le tante guerre civili in corso in Iraq, Siria e Libano, accrescendo l’instabilità e probabilmente anche i flussi migratori in direzione dell’Europa. Il fatto che molti di questi profughi verranno intercettati dalla Turchia renderà l’Europa più vulnerabile di fronte agli ultimatum di Ankara, in un momento politico tutt’altro che chiaro.
Il Pentagono è chiaramente a disagio, perché sa benissimo che i suoi attacchi, anche se tecnicamente riusciti, non hanno distrutto tutte le capacità chimiche siriane né la volontà di Assad di continuare ad usare ogni mezzo per riprendere il controllo del paese, ma non vuole neanche impegnarsi in Siria in un’altra guerra senza fine, che si aggiungerebbe alle tante altre cominciate e mai finite, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Somalia all’Africa sub-sahariana ( per non parlare della Corea), che paralizzano importanti e costose risorse militari americane ai quattro angoli del globo.
Di più, questa volta c’è anche il rischio – evitato, nell’ attacco appena compiuto – di un confronto diretto con la Russia, che potrebbe aprire molteplici difficili scenari di crisi, non solo nel Mediterraneo.
Capacità militari e obiettivi strategici
Gli Stati Uniti hanno le capacità militari, politiche ed economiche per dominare la situazione, ma è necessaria una maggiore chiarezza circa gli obiettivi strategici che intendono raggiungere, per evitare che i molteplici e diversissimi interessi degli attori locali finiscano per imbarbarire del tutto la situazione.
Gli europei, d’altra parte, a differenza degli Stati Uniti, non hanno le capacità militari, politiche ed economiche per dominare la situazione, per cui cercano in ogni modo di “reclutare” Washington perché faccia la differenza e consenta alle vecchie ex-grandi potenze europee di continuare a difendere i loro interessi. Ma il gioco si fa sempre più difficile e le preferenze politiche di Trump lo rendono anche sempre più improbabile.
In conclusione, se l’intenzione è quella di bloccare una volta per tutte l’uso di armi chimiche, e di imporre il rispetto del Trattato che le ha abolite, è ormai chiaro che un semplice attacco una tantum, per quanto mirato ed efficace, non basterà: al contrario, potrebbe convincere definitivamente al-Assad e i suoi alleati che hanno mano libera. E la credibilità degli Stati Uniti e degli alleati europei nel conflitto siriano non potrebbe che ridursi ai minimi termini.
Molte altre opzioni sono ulteriormente possibili, a cominciare da attacchi diretti contro le sedi del governo siriano, le residenze di al-Assad e dei suoi ministri, la distruzione sistematica degli stabilimenti militari eccetera. È anche possibile combinare assieme una campagna militare prolungata con sanzioni mirate e altre misure punitive politico-economiche, così da danneggiare più seriamente il regime. È infine possibile, raccogliendo un vasto consenso internazionale, aggirare almeno in parte il veto russo al Consiglio di Sicurezza e puntare direttamente alla incriminazione di al-Assad e dei suoi di fronte alla Corte penale internazionale, quanto meno per la violazione del Trattato sulle armi chimiche.
Il rischio di uno scontro con Mosca e la ridda di incognite
Queste alternative ed altre ancora rimangono sul tavolo, e potrebbero essere riprese in esame una volta che la task force navale della portaerei Truman arriverà nel Mediterraneo orientale. Ma il problema è che nel percorrere queste strade Washington finirebbe per scontrarsi frontalmente con Mosca, almeno se Vladimir Putin continuerà a coprire e garantire il dittatore siriano. In questo caso Trump (e, con lui, anche gli alleati europei) sarebbe costretto a rivedere le sue preferenze politiche, e ad entrare in un nuovo periodo di scontro Est-Ovest.
Non sarebbe il primo presidente degli Stati Uniti costretto ad assumere posizioni più intransigenti del previsto. Ronald Reagan, ad esempio, si trovò di fronte una Unione Sovietica che stava sistematicamente violando buona parte dei Trattati sul controllo degli armamenti, un po’ come sta facendo oggi la Russia, e finì con il prendere atto di questa situazione, denunciandola in dettaglio al Congresso e all’opinione pubblica. In ultima analisi quel chiarimento diede ottimi risultati, portando alla fine della Guerra Fredda. Possiamo sperare che la storia si ripeta?
Oggi purtroppo i governi delle maggiori potenze sembrano tutti infettati dallo stesso virus nazionalista che impazza tra i popoli europei. Questo non è un buon segnale. È forte il rischio di reazioni esagerate, di letture ideologicamente distorte delle mosse altrui, di scatti di orgoglio mal posti e mal indirizzati.