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Da Orwell a Trump

Siria: le armi chimiche, il regime, noi e la guerra

23 Apr 2018 - Lorenzo Kamel - Lorenzo Kamel

Risale alla metà dell’Ottocento la prima volta in cui, nella regione del Mena, venne utilizzato del fumo come arma per asfissiare dei civili. Il generale francese Bugeaud adottò allora un “nuovo metodo” per sterminare centinaia di uomini, donne e bambini in Algeria: “Se [gli algerini] si rifugiano nelle loro caverne”, intimò Bugeaud, “stanateli come volpi con il fumo”. Settant’anni dopo, il Medio Oriente fu testimone per la prima volta degli effetti delle armi chimiche.

Durante la Terza Battaglia di Gaza (1917) le truppe guidate dal generale Allenby utilizzarono infatti circa 10.000 granate cariche di gas asfissiante. Il loro limitato impatto deluse le aspettative di Allenby. L’uso del gas, tuttavia, attirò molta attenzione al punto che – subito dopo la Rivolta irachena del 1920 contro la proposta di un mandato britannico in Mesopotamia – l’allora segretario di Stato per le colonie, Winston Churchill, chiarì di essere “favorevole all’utilizzo del gas avvelenante contro queste tribù incivili […] diffonderà tra di esse puro terrore”.

Un secolo e molte guerre più tardi, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti (il cui sostegno all’uso di armi chimiche da parte di Saddam Hussein durante la guerra Iraq-Iran è ormai provato) hanno lanciato in Siria “un intervento umanitario a guida statunitense” come misura punitiva contro presunti attacchi chimici compiuti dal regime nella Ghūta orientale. Tali intenti umanitari, tuttavia, sollevano interrogativi che tardano a trovare risposte convincenti.

Armi convenzionali versus armi chimiche
Il sospetto attacco chimico avvenuto lo scorso 7 aprile è stato negato da numerose fonti, compresi i medici che hanno operato negli ospedali da campo presso cui le vittime hanno ricevuto i primi soccorsi. Il regime si è macchiato di reiterati e documentati crimini di guerra. Poco chiaro, tuttavia, appare l’interesse ad utilizzare armi chimiche in una fase in cui le forze di Bashar Al-Assad sono ormai vicine a imporsi.

A ciò si aggiunga che sono le armi convenzionali (non, dunque, le armi chimiche) ad avere causato oltre il 90% degli omicidi di massa compiuti dal regime e dai suoi alleati (Iran e Russia su tutti). L’intervento ‘umanitario’ a guida statunitense ha se non altro confermato che gli omicidi di massa possono essere tollerati. È invece il modo in cui i siriani muoiono a rappresentare la vera discriminante e a richiedere ‘reazioni’ straordinarie.

Il costo del “non-intervento”
Proprio l’assenza di una ‘reazione’ più pronta e decisa da parte delle cancellerie europee e degli Stati Uniti viene sempre più additata come una componente chiave per comprendere molto di ciò che sta avvenendo in Siria. Per le potenze occidentali, la possibilità di fare la differenza, ha notato il celebre autore britannico Andrew Rawnsley, “è stata persa molte morti fa”.

In realtà, proprio la Gran Bretagna, ben prima delle rivolte del 2011, ha portato avanti sistematiche politiche volte a utilizzare la Fratellanza musulmana in Siria. Il fine era quello di indebolire e controllare il regime siriano, considerato a lungo alla stregua di una spina nel fianco.

A partire dal 2011, la strategia di Londra e dei suoi più stretti alleati si è adattata al nuovo quadro regionale, virando verso finanziamenti rivolti a specifici attori locali. Tutto ciò ha contribuito a foraggiare l’attuale ‘guerra per procura’. È accaduto dunque l’opposto di quanto sovente sostenuto: Londra, Washington e i loro più stretti alleati sono intervenuti ‘prima dell’inizio’ e in maniera fin troppo pervasiva. Il regime siriano, ma anche Hezbollah e l’Iran, hanno tratto un crescente beneficio da tali politiche.

Un nuovo ordine regionale
È stato fatto presente che in un’epoca come quella attuale, nella quale la “politica ha le sembianze di un reality show”, anche la geopolitica e i raid militari assumono sovente i contorni di uno spettacolo. C’è molto di vero in queste parole. Tuttavia, l’attuale “show geopolitico” è sostenuto da due obiettivi molto concreti.

Il primo può essere ricondotto alla crisi diplomatica che il Qatar sta affrontando a partire dal 2017. Sia lo scoppio della crisi che il recente attacco a guida statunitense sono finalizzati a fornire un chiaro segnale agli attori regionali, mostrando le conseguenze che dovranno affrontare quanti non si dimostreranno disposti ad allinearsi al fronte anti-iraniano e al tacito accordo che lega Israele all’Arabia Saudita e ai suoi alleati.

Negli ultimi mesi anche diverse fonti saudite hanno confermato che le relazioni israelo-saudite rappresentano l’aspetto cardine per comprendere “le trasformazioni che stanno interessando la regione e le decisioni prese dietro le quinte riguardo la causa palestinese”, compresi i recenti nonché gli imminenti sviluppi riguardanti lo status di Gerusalemme.

“Minare” gli accordi di Astana
Il secondo obiettivo mira invece a indebolire i legami tra Russia, Iran e Turchia, i tre garanti degli accordi di Astana. Questi ultimi, nei quali Mosca ha giocato un ruolo chiave, sono percepiti da numerosi osservatori come un efficace strumento per scongiurare la frammentazione della Siria e, più in generale, la divisione dei principali Stati arabi in piccole e omogenee entità incapaci di imporsi.

Quest’ultimo rappresenta un obiettivo politico a cui si ispirano diverse figure di primo piano dell’Amministrazione Trump. Non si tratta tuttavia di nulla di nuovo. Strategie simili sono state avanzate e sostenute fin dagli inizi degli anni 2000 anche da diversi influenti think tank di Washington, incluso il Project for the New American Century (PNAC).

Guerra è pace
La tesi secondo cui il mondo ‘civilizzato’ stava osservando l’ennesimo scontro di un ‘Oriente islamico’ per sua natura fanatico e settario era ben presente nei giornali pubblicati in Inghilterra e in Francia all’inizio degli Anni Sessanta dell’Ottocento. Gli osservatori dell’epoca erano intenti a descrivere i massacri tra cristiani e musulmani avvenuti durante la guerra civile in Libano, culminata con le persecuzioni di Damasco nel 1860.

Allora come oggi, alcune potenze esterne sentirono la necessità di intervenire nella regione adducendo ‘considerazioni umanitarie’, per lo più ispirate alla retorica della mission civilisatrice. Furono tuttavia molto meno pronte a riconoscere loro responsabilità, o ad alleviare il peso umanitario sostenuto dagli attori locali.

Non molto è cambiato. È sufficiente notare che dal 2011 la Russia ha garantito lo status di rifugiato a “un solo cittadino siriano”. Stando a dati forniti dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, Washington ha ammesso sul proprio territorio nazionale appena 11 rifugiati siriani nel corso del 2018. Sono esempi che rappresentano la norma piuttosto che l’eccezione. La celebre profezia di Orwell – “la Guerra è Pace; la Libertà è Schiavitù; l’Ignoranza è Forza” – non avrebbe potuto trovare miglior manifesto.