Siria: armi chimiche, al-Assad non è l’unico ad averne un arsenale
“Spero che gli americani non prendano decisioni scellerate: dovessero accorgersi che Assad è all’angolo i russi interverrebbero”, aveva appena dichiarato il generale della Folgore Marco Bertolini al Mattino di Napoli. Era il 10 aprile e ancora si discuteva dell’eventualità di un attacco degli Stati Uniti e dei loro alleati in Siria, a causa dell’uso di armi chimiche. La mattina del 14, ecco la notizia: bombe anglo-franco-americane su siti contenenti (secondo indicazioni Usa) aggressivi chimici, non lontano dalle basi russe di Tartus e Latakia.
La precisione dei caccia bombardieri e la celerità dell’intervento fanno pensare più a moventi geopolitici (non è una novità che le Amministrazioni statunitensi mal tollerino la presenza di Mosca nel sud del Mediterraneo) che alla reale volontà di punire il ricorso ai gas. Ipotesi, mentre la questione “mostarda” è certa: un gas elaborato oltre cento anni fa in Germania e usato in molti conflitti.
Come mai quei materiali circolano ancora e il ruolo della Russia
Alla lecita domanda “cosa ci fa quel materiale ancora in circolazione?”, si può rispondere facendo un salto indietro nel tempo, fino alla Guerra Fredda, quando gli arsenali del Patto di Varsavia e della Nato conservavano armi oggi messe al bando o comunque considerate fuori legge.
Come noto, il regime della famiglia Assad (prima Hafez, poi Bashar) è legato alla Russia da un trattato di cooperazione stilato nel 1971, anno nel quale l’Unione Sovietica inizia ad inviare tecnologie militari, armi, ma anche capitali e tecnici nel Paese medio orientale. Dai tempi dello Zar Ivan il Terribile, infatti, la Russia guarda alle acque calde del Mediterraneo come ad un importante sbocco per vincere l’isolazionismo geografico e per estendere la sua influenza oltre i Dardanelli.
L’Urss recupera dalla tradizione zarista il sogno di un facile sbocco nelle acque del Mare Nostrum, dapprima facendo pressioni sulla Repubblica di Turchia (Crisi dei Dardanelli, 1945), poi cercando di intercettare e di conquistare il favore dei regimi nati dall’indipendenza del mondo arabo dagli inglesi e dai francesi: opportunità di poter allestire scali commerciali (e militari), in cambio di denaro e armamenti.
Homs, Hama, Latakia e Tartus sono basi prima sovietiche e poi russe, la cui importanza strategica è talmente elevata che neanche la Caduta del Muro e la dissoluzione dell’Urss riescono a far distogliere la politica estera del Cremlino da quei lontani angoli di Siria.
La storia delle armi chimiche siriane
Torniamo alle armi chimiche. Damasco riceve aiuti militari fino ai primi Anni Novanta; poi, dopo circa un decennio di stop delle forniture, nuovi mezzi e risorse ricominciano ad affluire verso la Repubblica araba. Gli equipaggiamenti, le armi, gli aerei, i tank di Damasco sono tutti rigorosamente made in Russia, parte di ciò che Assad ha accumulato nel corso della Guerra Fredda; fra questi, con molta probabilità, quelle armi chimiche il cui possesso è oggi contestato da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia perché in aperta violazione a quanto disposto dalla Convenzione sulle Armi chimiche del 1993 (entrata in vigore nel 1997) che vieta sviluppo, produzione, stoccaggio e naturalmente impiego di tali aggressivi. Da allora, la maggior parte dei Paesi del Mondo ha provveduto all’eliminazione dai propri arsenali di quelle armi ormai fuorilegge, ma in fondo largamente usate durante l’intera Guerra Fredda sia dai sovietici e dai loro alleati sia da Paesi della Nato.
Come dimenticare, ad esempio, l’agente arancione o i deforestanti lanciati sulle aree verdi del Laos e del Vietnam? Strumenti di distruzione e di morte terribili, rimasti poi accatastati per decenni nei depositi perché i costi di smaltimento sono elevati. Ad esempio, a tutto il 2013 gli americani avevano distrutto il 90% dei proiettili chimici ancora conservati, sostenendo una spesa di circa 28 miliardi di dollari. Il restante 10% è tuttora stipato in un complesso che si trova in Colorado, il Pueblo Chemical Depot che, stando a quanto si legge in una nota dello US Army Chemical Materials Activity, consiste in circa 2500 tonnellate di materiale (essenzialmente “mustard gas”) prossimo all’incenerimento o alla distruzione.
Non è solo Assad, quindi, a detenere ancora pericolose arme di distruzione di massa. Semmai a mancare sono i fondi per sbarazzarsi dell’ingombrante lascito del passato sovietico.
Un lavoro di eliminazione incompiuto
Già nei primi anni del conflitto, le organizzazioni internazionali avevano vagliato la possibilità di un controllo dei siti in territorio siriano, ma la guerra, unitamente al cambio degli equilibri internazionali e alle tensioni fra Russia, Usa ed Ue, ha impedito di portare a termine un lavoro di sostegno al governo di Damasco per liberare la Repubblica araba da pericolosi ordigni che, se caduti nelle mani sbagliati (milizie islamiche, organizzazioni criminali) avrebbero potuto essere usati contro la popolazione civile o rivenduti sul mercato nero.
E invece gran parte delle 1000 tonnellate di gas siriani è ancora lì, in depositi dai quali può facilmente ‘evadere’ se questi sono colpiti da una granata o distrutti da un incendio. In verità, però, le prove sull’uso di agenti chimici nei sette anni di guerra civile sono relativamente poche: una ‘fuga di gas’ da un deposito non può essere per forza attribuita ad una strategia premeditata, almeno non in assenza di solide prove che supportino le accuse e che motivino un intervento armato.
I raid del 14 aprile, dunque, sembra siano stati mossi più dal desiderio Occidentale di non lasciare la partita siriana in mano a Putin che non dall’intento di mettere termine a un conflitto che, sette anni dopo, non vede ancora un vincitore.