Quando (e dove) le scuole fanno più paura delle chiese
Fanno più paura le scuole delle chiese quando al governo di un Paese il monopolio politico vuole essere suggellato da quello culturale e da un sistema di valori formativo delle coscienze. Meglio, dunque, chiudere le prime e lasciare aperte le seconde, in particolare quando le prime riguardano la fascia d’istruzione fino alle elementari. Se i dati su Erasmus e gli scambi internazionali a livello di superiori e università ci raccontano un mondo in movimento dove le barriere geografiche sono superate nei fatti, esistono aree del mondo dove studiare non solo è un grande privilegio, ma è sottoposto a stretta sorveglianza politica.
A raccontarcelo è Giampietro Pettenon, presidente delle Missioni don Bosco, attive in 132 nazioni con 3643 scuole, 940.000 allievi, 68.000 docenti e formatori, 826 centri di formazione professionale con 200.300 allievi e 15.000 docenti e formatori, 85 istituti universitari, 280 convitti, 205 centri educazione adulti e 163 pensionati/collegi. Una realtà di scuole diffusa, ma che incontra difficoltà di volta in volta variabili a seconda dei cambiamenti politici. Oggi la situazione più ardua da affrontare – dice – è in Iran, a seguire in Myanmar e in Cina.
Iran: il culto sì (fino a dicembre), la formazione tecnica no
“A Teheran – racconta – avevamo un centro di formazione tecnica. Questa è la nostra specializzazione: siamo riconosciuti ufficialmente come congregazione che si occupa di formazione professionale. Con la rivoluzione khomeinista venne sequestrato e fummo tutti espulsi. Abbiamo chiesto di ritornare, ma nell’esclusivo esercizio del culto presso la Cattedrale, e questo è stato accettato. Raramente i governi azzarano l’appartenenza religiosa, raramente sono chiusi o profanati i luoghi di culto. La scuola, invece, è considerata un’attività civile di competenza dello Stato”.
“In taluni Paesi la scuola privata non è concepibile anche se le nostre scuole sono aperte a tutti, in particolare alle classi povere, e ci guardiamo bene dal fare proselitismo. Abbiamo trasformato il motto di don Bosco. Lui diceva di formare ‘bravi cristiani e onesti cittadini’, noi invece ‘bravi credenti, siano islamici, buddhisti, cristiani, quello che vogliono, e onesti cittadini’”.
“In ogni caso la nostra presenza in Iran si è conclusa a dicembre quando non ci è stato concesso di provvedere al cambio del sacerdote. Lo abbiamo comunicato alla Santa Sede”.
Myanmar: collegi esclusivi o ‘bambini di strada’
Anche nel Myanmar “ci è stata preclusa ogni possibilità di fare scuola – aggiunge Pettenon –, lasciandoci soltanto il permesso di un collegio esclusivo per i figli delle famiglie cattoliche. Ultimamente, però, è successo che a Yangon, dove aprono sempre di più fabbriche indiane e cinesi, sia sorto il problema di avere a disposizione degli abili saldatori e così abbiamo messo a disposizione un centro di addestramento. A Mandalay, invece, uno dei 3-4 sacerdoti rimasti ha semplicemente cominciato a raccogliere ragazzi di strada, bambini o poco più che bambini, soli, senza genitori, che dormono lungo le ferrovie o gli argini dei fiumi, sulle piazze dei mercati”. L’alternativa, per loro, è o prepararli al percorso scolastico, mai iniziato o interrotto, o prepararli a un mestiere, opzione quest’ultima largamente preferita ed efficace.
Cina: una realtà complessa e disomogenea
Complessa e disomogenea la realtà cinese. “Hong Kong a parte – osserva Pettenon – che è una metropoli occidentalizzata, nel resto stiamo tessendo proficue relazioni, ma solo a livello accademico. I cinesi sono molto interessati al modello educativo don Bosco, epurato dal contenuto religioso, ma non ci è permessa alcuna attività se non sotto lo stretto controllo governativo”. Pettenon descrive anche una situazione di pesante ingerenza politica sulle chiese cristiane e a confermarlo sono le recenti prese di posizione del vescovo emerito di Hong Kong, cardinale Joseph Zen, di formazione salesiana. Formalmente i vescovi sono nominati dalla Santa Sede, ma devono essere graditi al governo e, dunque, la libertà religiosa, cartina di tornasole di altre libertà, è costretta entro paletti molto rigidi.
Tuttavia il mercato globale, gli interessi economici, la necessità di prendere dall’Occidente il meglio che esprime in termini di know-how tecnologico, ricerca scientifica e, più complessivamente, patrimonio culturale, fa sì che si aprano spazi di interazione. Vogliono dire qualcosa i numeri, forniti dalla Farnesina, sulla rete delle scuole italiane all’estero, dall’infanzia alle superiori di secondo grado: un totale di 138 istituti in Europa, Africa, Mediterraneo, Asia, Americhe. Si aggiunga che durante l’anno accademico in corso Agenzia nazionale Erasmus – Indire calcolano almeno 40mila universitari che andranno all’estero con Erasmus, mentre la mobilità in entrata da paesi extra-Ue è stata stimata in 2156 unità, tra studenti e docenti.
Gli universitari cinesi rappresentano una grossa fetta di questa immigrazione, oltre 7.300 sparsi negli atenei italiani, pari a un quarto degli studenti extra-europei nel nostro Paese. Volendo ricomporre le due narrazioni, lo sviluppo della cooperazione internazionale da un lato e lo sviluppo delle diseguaglianze dall’altro, viene fuori l’ asimmetria della globalizzazione che trascina l’alta gamma (sia questa economica, sociale, scolastico-culturale) e lascia ai margini gli esclusi. E tra gli esclusi i bambini che, secondo l’Unicef, in circa 123 milioni nel mondo non vanno a scuola. Il diritto all’istruzione di base è ancora un obiettivo lontano da raggiungere e con un carico maggiore sulle spalle delle bambine. Sulla scuola, tuttavia, si gioca il futuro dei Paesi: l’accelerazione impressa dalla finanza e dalla rete della comunicazione digitale, radicalizza tutti i processi di inclusione o esclusione. Nella corsa chi è primo taglia il traguardo in tempi sempre più veloci e chi resta indietro rischia di restare nel cono d’ombra, dove la storia sembra non cambiare mai.