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L'esperienza dei Salesiani

Quando (e dove) le scuole fanno più paura delle chiese

3 Apr 2018 - Emmanuela Banfo - Emmanuela Banfo

Fanno più paura le scuole delle chiese quando al governo di un Paese il monopolio politico vuole essere suggellato da quello culturale e da un sistema di valori formativo delle coscienze. Meglio, dunque, chiudere le prime e lasciare aperte le seconde, in particolare quando le prime riguardano la fascia d’istruzione fino alle elementari. Se i dati su Erasmus e gli scambi internazionali a livello di superiori e università ci raccontano un mondo in movimento dove le barriere geografiche sono superate nei fatti, esistono aree del mondo dove studiare non solo è un grande privilegio, ma è sottoposto a stretta sorveglianza politica.

A raccontarcelo è Giampietro Pettenon, presidente delle Missioni don Bosco, attive in 132 nazioni con 3643 scuole, 940.000 allievi, 68.000 docenti e formatori, 826 centri di formazione professionale con 200.300 allievi e 15.000 docenti e formatori, 85 istituti universitari, 280 convitti, 205 centri educazione adulti e 163 pensionati/collegi. Una realtà di scuole diffusa, ma che incontra difficoltà di volta in volta variabili a seconda dei cambiamenti politici. Oggi la situazione più ardua da affrontare – dice – è in Iran, a seguire in Myanmar e in Cina.

Iran: il culto sì (fino a dicembre), la formazione tecnica no
“A Teheran – racconta – avevamo un centro di formazione tecnica. Questa è la nostra specializzazione: siamo riconosciuti ufficialmente come congregazione che si occupa di formazione professionale. Con la rivoluzione khomeinista venne sequestrato e fummo tutti espulsi. Abbiamo chiesto di ritornare, ma nell’esclusivo esercizio del culto presso la Cattedrale, e questo è stato accettato. Raramente i governi azzarano l’appartenenza religiosa, raramente sono chiusi o profanati i luoghi di culto. La scuola, invece, è considerata un’attività civile di competenza dello Stato”.

“In taluni Paesi la scuola privata non è concepibile anche se le nostre scuole sono aperte a tutti, in particolare alle classi povere, e ci guardiamo bene dal fare proselitismo. Abbiamo trasformato il motto di don Bosco. Lui diceva di formare ‘bravi cristiani e onesti cittadini’, noi invece ‘bravi credenti, siano islamici, buddhisti, cristiani, quello che vogliono, e onesti cittadini’”.

“In ogni caso la nostra presenza in Iran si è conclusa a dicembre quando non ci è stato concesso di provvedere al cambio del sacerdote. Lo abbiamo comunicato alla Santa Sede”.

Myanmar: collegi esclusivi o ‘bambini di strada’
Anche nel Myanmar “ci è stata preclusa ogni possibilità di fare scuola – aggiunge Pettenon –, lasciandoci soltanto il permesso di un collegio esclusivo per i figli delle famiglie cattoliche. Ultimamente, però, è successo che a Yangon, dove aprono sempre di più fabbriche indiane e cinesi, sia sorto il problema di avere a disposizione degli abili saldatori e così abbiamo messo a disposizione un centro di addestramento. A Mandalay, invece, uno dei 3-4 sacerdoti rimasti ha semplicemente cominciato a raccogliere ragazzi di strada, bambini o poco più che bambini, soli, senza genitori, che dormono lungo le ferrovie o gli argini dei fiumi, sulle piazze dei mercati”. L’alternativa, per loro, è o prepararli al percorso scolastico, mai iniziato o interrotto, o prepararli a un mestiere, opzione quest’ultima largamente preferita ed efficace.

Cina: una realtà complessa e disomogenea
Complessa e disomogenea la realtà cinese. “Hong Kong a parte – osserva Pettenon – che è una metropoli occidentalizzata, nel resto stiamo tessendo proficue relazioni, ma solo a livello accademico. I cinesi sono molto interessati al modello educativo don Bosco, epurato dal contenuto religioso, ma non ci è permessa alcuna attività se non sotto lo stretto controllo governativo”. Pettenon descrive anche una situazione di pesante ingerenza politica sulle chiese cristiane e a confermarlo sono le recenti prese di posizione del vescovo emerito di Hong Kong, cardinale Joseph Zen, di formazione salesiana. Formalmente i vescovi sono nominati dalla Santa Sede, ma devono essere graditi al governo e, dunque, la libertà religiosa, cartina di tornasole di altre libertà, è costretta entro paletti molto rigidi.

Tuttavia il mercato globale, gli interessi economici, la necessità di prendere dall’Occidente il meglio che esprime in termini di know-how tecnologico, ricerca scientifica e, più complessivamente, patrimonio culturale, fa sì che si aprano spazi di interazione. Vogliono dire qualcosa i numeri, forniti dalla Farnesina, sulla rete delle scuole italiane all’estero, dall’infanzia alle superiori di secondo grado: un totale di 138 istituti in Europa, Africa, Mediterraneo, Asia, Americhe. Si aggiunga che durante l’anno accademico in corso Agenzia nazionale Erasmus – Indire calcolano almeno 40mila universitari che andranno all’estero con Erasmus, mentre la mobilità in entrata da paesi extra-Ue è stata stimata in 2156 unità, tra studenti e docenti.

Gli universitari cinesi rappresentano una grossa fetta di questa immigrazione, oltre 7.300 sparsi negli atenei italiani, pari a un quarto degli studenti extra-europei nel nostro Paese. Volendo ricomporre le due narrazioni, lo sviluppo della cooperazione internazionale da un lato e lo sviluppo delle diseguaglianze dall’altro, viene fuori l’ asimmetria della globalizzazione che trascina l’alta gamma (sia questa economica, sociale, scolastico-culturale) e lascia ai margini gli esclusi. E tra gli esclusi i bambini che, secondo l’Unicef, in circa 123 milioni nel mondo non vanno a scuola. Il diritto all’istruzione di base è ancora un obiettivo lontano da raggiungere e con un carico maggiore sulle spalle delle bambine. Sulla scuola, tuttavia, si gioca il futuro dei Paesi: l’accelerazione impressa dalla finanza e dalla rete della comunicazione digitale, radicalizza tutti i processi di inclusione o esclusione. Nella corsa chi è primo taglia il traguardo in tempi sempre più veloci e chi resta indietro rischia di restare nel cono d’ombra, dove la storia sembra non cambiare mai.