Migranti climatici: una realtà a cui non siamo preparati
143 milioni di migranti climatici entro il 2050. Questo il numero stimato dalla Banca Mondiale nel rapporto Groundswell, Preparing for Internal Climate Migration pubblicato lo scorso mese.
Considerando i dati dell’organismo intergovernativo sul clima delle Nazioni Unite (IPCC 2013) – che prevede un innalzamento della temperatura media globale fra 0,3 e 2,5 °C entro metà secolo-, e le stime di crescita della popolazione mondiale – indicata sopra la soglia dei 10 miliardi nei prossimi trenta anni-, c’è da aspettarsi che il numero delle persone costrette a lasciare la propria casa per questioni ambientali aumenti sempre più. La cifra di 143 milioni rappresenta solo lo scenario più allarmante.
Ma chi sono i migranti climatici? Il quadro normativo vigente consente di “accoglierli”? E molto più importante: come si inseriscono nel complesso quadro politico e sociale nazionale e internazionale?
L’Italia, una società impreparata ad accettare i migranti
Partiamo dall’ultima domanda. E’ opinione di molti che i migranti siano state le vittime ultime della campagna elettorale italiana, durante la quale le parole più usate sono state invasione, criminalità, terrorismo, instabilità. Come mostra il rapporto annuale di Amnesty International, la realtà italiana è in perfetta linea con la tendenza, sempre più diffusa tra i leader del mondo, di prospettare scenari “da incubo” per ottenere risultati a breve termine, basati quindi sulle sensazioni molto più che sui dati.
A confermare quanto questo sia vero per il Belpaese c’è anche il rapporto Ipsos 2017, secondo cui l’Italia risulta ai primi posti della classifica mondiale per percezione negativa degli immigrati, con il 66% degli italiani che ritiene che siano troppi e una larga maggioranza che si dice favorevole alla chiusura netta delle frontiere.
È quindi intanto necessaria una riflessione sull’uso improprio di parole e concetti, partendo da due premesse: la prima, che l’Italia non può e non deve chiudere le sue porte sul fronte Mediterraneo, poiché esso costituisce il prolungamento fisiologico ed economico del Paese; la seconda, che i migranti che arrivano sulle nostre sponde rappresentano una percentuale marginale rispetto quella dei migranti dei flussi intra-africani, sviluppati sull’asse Sud-Sud.
Bisogna poi superare la visione, diffusa, del continente nero come mera fonte di materie prime, e arrivare a riconoscere il capitale umano costituito dalle persone che vi abitano. Innanzitutto chiedendosi quali sono le cause degli spostamenti, poiché chi lascia la propria casa lo fa nella maggior parte dei casi perché costretto, quasi mai per scelta.
Migranti climatici, un esempio per capire: il Lago Ciad
Nel solo 2016 risulterebbero 22,5 milioni di profughi ambientali, spinti ad andarsene dai propri Paesi d’origine per fenomeni legati al clima, quali inondazioni, uragani, siccità. Il Lago Ciad è un esempio significativo per il quadro che si sta qui delineando, con una riduzione della sua portata dell’80% negli ultimi 40 anni. Un dato interessante se si tiene conto che nove migranti su dieci che affrontano il disperato tentativo di attraversare il Mediterraneo provengono dalla fascia del Sahel, di cui il Lago Ciad rappresenta il cardine geografico.
La difficoltà a riconoscere il nesso tra cambiamento climatico e migrazione si deve ai cosiddetti “slow-on-set events”, cioè gli eventi a “lenta insorgenza”. Si tratta di quei cambiamenti che testimoniano un progressivo, ma lento, peggioramento del clima, come lo scioglimento dei ghiacciai o la desertificazione del suolo: l’impatto di questi cambiamenti è appena percepibile nell’immediatezza, ma prelude a trasformazioni epocali negli ecosistemi naturali e sociali.
Come messo in luce dall’avvocato e attivista Eugenio Alfano, l’incertezza provocata dai cambiamenti climatici ha inevitabili ricadute di natura conflittuale, contribuendo a creare le dinamiche tipiche del terrorismo e della guerra (non è un caso che i primi settori ad essere preoccupati per il clima siano quelli militari, a partire dal dipartimento di Difesa americano che ha definito il cambiamento climatico un “moltiplicatore di minacce”).
La concatenazione di questi fenomeni con altri di natura sociale, culturale e religiosa è proprio ciò che rende difficile definire in maniera netta l’identità del “migrante climatico”, oggi più che mai intrappolato nel clima di paura alimentato dalla classe politica.
Un fenomeno non regolato dal diritto internazionale
Dal punto di vista giuridico, la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati non contempla la tutela dei migranti climatici: la definizione limitata di profugo in essa contenuta ha fatto sì che il dibattito si sclerotizzasse attorno alla rigida distinzione tra Paesi “sicuri” e “non sicuri” da cui accettare i richiedenti asilo, escludendo ampie fasce di profughi che lasciano il proprio Paese per ragioni complesse, tra cui i fattori ambientali.
A impedire una revisione dei trattati vigenti concorrono le critiche che ruotano attorno l’intero fenomeno migratorio: il rischio di un ipotetico calo della sicurezza, la necessità di salvaguardare le identità nazionali, la mancanza di risorse economiche per soddisfare il fabbisogno di tutta la popolazione.
A proposito di quest’ultima, uno studio di Antonello Pasini, climatologo del Cnr e autore del recentesaggio Effetto serra effetto guerra, conferma che invece, al di là delle dispute etiche o morali, la costruzione di muri sarebbe molto più costosa di una politica improntata all’integrazione e alla cooperazione allo sviluppo. Lo stesso rapporto della Banca Mondiale riporta l’impatto positivo delle migrazioni sui Paesi riceventi, in termini di forza lavoro, apporto di innovazione e alleviamento degli oneri pensionistici.
Risulta quindi inevitabile rivedere certi principi, spingendo per un’applicazione estensiva della Convenzione di Ginevra o per la stipula di un nuovo trattato che tenga conto delle dinamiche attuali. L’Italia ha di recente mosso il primo passo in questa direzione, con il riconoscimento da parte del Tribunale dell’Aquila del rifugiato bengalese Milon quale “migrante climatico”. Ma il solco da colmare è notevole e mancano sufficienti motivazioni plausibili con cui controbattere ai dati scientifici. Recita un proverbio: “il miglior momento per piantare un albero era vent’anni fa. Il secondo miglior momento è adesso”.