Francia: dopo Siria, critiche a politica estera Macron
Nelle ultime settimane, la Francia ha subito dure critiche da più fronti nell’opinione pubblica europea, a causa del suo coinvolgimento militare nella complessa situazione siriana. A fare da parafulmine di queste critiche è stato il presidente Macron, accusato di avere adottato quella che ormai è universalmente definita come la sua attitudine gioviana a livello della politica estera europea.
La Francia, che piaccia o meno alle altre potenze europee, è probabilmente il giocatore geopolitico più importante dell’Unione europea: è membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, è una potenza nucleare e, grazie al suo passato coloniale, ha controllo su un’immensa distesa di acque territoriali disseminate in tutti gli oceani, garantendole un vero e proprio ‘global reach’.
Un Paese e il suo presidente
Un’azione del genere, portata avanti in maniera unilaterale, specialmente di fronte alle posizioni molto più caute di altri importanti attori europei come l’Italia e la Germania, rischia seriamente di compromettere le capacità europee di sviluppare un’azione comune nel delicato teatro siriano. L’intervento di Macron di pochi giorni dopo, in cui si metteva in guardia l’opinione pubblica europea nei confronti delle attitudini egoiste di alcuni Stati, è suonato a molti come una beffa che si aggiungeva al danno.
Il blocco atlantico e quello europeo sono riusciti a rimanere tutto sommato compatti anche dopo lo strappo, ma anche a fronte delle comprensibili giustificazioni umanitarie all’intervento, le critiche all’unilateralismo di Macron sono pienamente condivisibili. O meglio, le critiche sarebbero pienamente giustificate se fossero rivolte alla Francia come attore strategico, e non al presidente francese, che si sta semplicemente inserendo nel solco scavato dai suoi predecessori.
La Francia infatti ha abituato da anni gli analisti politici a un’attitudine fortemente attiva, alle volte con azioni semplicemente intraprese indipendentemente dalla diplomazia europea, ma in alcuni casi anche con veri e propri strappi ipervolontaristi nei confronti dei suoi supposti alleati occidentali.
Non solo la Siria
In primo luogo, ovviamente, bisogna citare l’esempio dell’intervento in Libia nel 2011, intervento che col senno di poi non si può non definire disastroso, sia per la sua assoluta incapacità di portare fine alla guerra civile che imperversava in Libia (guerra civile anzi decisamente inasprita), che per le recenti ricadute politiche, con l’allora presidente Sarkozy recentemente inquisito a seguito di dichiarazioni del secondogenito di Gheddafi, Saif al-Islam, probabilmente alla ricerca di una vendetta personale, secondo cui Sarkozy avrebbe accettato nel 2007 50 milioni di euro dal leader libico per finanziare la sua campagna elettorale.
Ma al di là dell’intervento in Libia, la Francia ha avuto modo di mostrare i muscoli in varie altre occasioni: particolarmente recente, e passata relativamente sotto traccia a causa delle più calde situazioni in Siria e Libia, fu l’Operation Serval, l’intervento in Mali del 2015, richiesto ai francesi dal governo di quel Paese per pacificare il Nord dello Stato controllato da un patchwork di gruppi separatisti e milizie islamiche.
L’intervento fu particolarmente facile da organizzare a livello logistico, perché la Francia disponeva già nella regione di un importante contingente militare, impegnato nella ventennale Opération Épervier, altro intervento militare francese, questa volta in Ciad.
La verità è che il passato coloniale francese ha, dal dopoguerra in poi, comportato per lo Stato una serie di doveri e privilegi profondamente introiettati dai politici e dall’opinione pubblica. Un esempio, meno violento dei precedenti, del desiderio di controllo francese sulle ex-colonie è senza dubbio il Franco Fca: moneta coloniale dell’impero francese, poi divenuta moneta autonoma ma agganciata al franco francese (e quindi all’euro, dal 1999) e che resta a tutt’oggi la moneta ufficiale di 14 Stati dell’Africa centrale, fra le costanti critiche di chi afferma questo strumento impedisca agli Stati di adottare politiche monetarie indipendenti, garantendo una stabilità di valuta utile solo agli investitori stranieri.
A questo, va detto, fa da contraltare la generale apertura con cui i francesi hanno tentato dal dopoguerra di integrare le popolazioni dell’impero coloniale che stava disfacendosi. Apertura che ha avuto il suo picco nel ‘98, quando la multietnica generazione dei ‘Black, blanc, beur’ portò alla vittoria della Coppa del Mondo di calcio, in un tripudio di dichiarazioni politiche all’insegna dell’apertura al diverso.
Che fare?
Ciò detto, sarebbe necessario per la Francia iniziare un dialogo interno alla sua società relativo a ciò che si vuole ottenere nell’ambito geopolitico, ma soprattutto sugli strumenti che si intendono utilizzare per realizzare tali fini.
Questa presa di coscienza da parte del popolo francese urge soprattutto per il dualismo su cui si basa l’azione estera di uno Stato: da un lato i governi che vanno e vengono, dall’altro gli apparati diplomatici che restano. Situazione che porta spesso a inversioni di rotta politica mal digerite dagli apparati che poi devono metterle in atto, con la difficoltà aggiuntiva della cattiva nomea ereditata per politiche insensate, o per figure politiche inquisite.
La Francia deve comprendere il suo ruolo di primaria importanza nell’Ue, specialmente con l’imminente Brexit che la lascerà come unico Stato europeo membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, unica potenza nucleare e con basi militari in tutti i continenti.
Le alternative sono di continuare con l’unilateralismo o di cercare una vera concertazione di idee da difendere, obiettivi da realizzare e mezzi da utilizzare a livello europeo, per evitare il rischio che gli egoismi nazionali portino, per usare le forse troppo forti parole del presidente Macron stesso, “a una guerra civile europea”.