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Un Paese senza scelta

Egitto: la rielezione di Al-Sisi, dal voto più ombre che luci

5 Apr 2018 - Viola Siepelunga - Viola Siepelunga

I risultati ufficiali mostrano il ritorno dell’Egitto alle pratiche plebiscitarie. La maggioranza bulgara con la quale Al-Sisi è stato eletto presidente per il secondo mandato conferma l’assenza, lungo il Nilo, di un pensiero alternativo a quello dominante. I reportage realizzati dai – pochi – giornalisti autorizzati a coprire l’evento elettorale sul posto sono riusciti a captare quasi solo le voci allineate. A microfoni accesi quelle stonate hanno taciuto. Lo stesso fronte dell’opposizione, che denunciando – come del resto ha fatto la commissione diritti umani delle Nazioni Unite – il clima autoritario attorno al voto ha alla fine lanciato il boicottaggio, non ha osato fare circolare un solo volantino per strada. La sua campagna è stata tutta virtuale, ma non per questo più semplice, visto che il governo ha creato un’apposita task force per controllare anche questa sfera.

L’Egitto che ha votato Al-Sisi
L’Egitto che parla, perché può farlo, è quello che ha votato Al-Sisi perché crede che solo lui possa garantire la stabilità del Paese, scongiurare una deriva simile a quella avvenuta in Siria e in Iraq, stabilizzare la moneta ( che negli ultimi anni ha perso progressivamente valore) e rimettere in sesto l’economia, magari attraverso ricette magiche in grado di anestetizzare gli effetti collaterali causati dalle riforme imposte dai creditori internazionali.

I sostenitori del presidente – che non saranno certo il 98% degli egiziani, ma che sono comunque numerosi soprattutto tra poveri e anziani – credono che solo un uomo come lui, proveniente dall’esercito, possa tenere sotto controllo – poco importa se con l’uso della forza o della repressione – gli islamisti, gli estremisti e i terroristi che reputano illegittimo il regime da lui guidato.

Ma anche questo è vero solo in parte. Mentre la Fratellanza Musulmana – ovvero il movimento di ispirazione religiosa che ha vinto tutte le prime elezioni post rivoluzionarie – è stata costretta nuovamente alla clandestinità, i salafiti – ovvero i cugini estremisti dei Fratelli, che vogliono un ritorno al primissimo Islam – hanno fatto campagna elettorale per Al-Sisi e sono parte integrata/coptata del regime.

L’affluenza alle urne e la misura del dissenso
In tale clima, esacerbato dalla narrativa nazionalista, difficile misurare il dissenso. L’affluenza alle urne è certamente un parametro utile e significativo per avere il polso della situazione, ma non è sufficiente. In primis perché è un dato che va preso con le pinze. In passato, infatti, i dati comunicati dall’ente egiziano che controlla lo svolgimento delle elezioni sono stati molto più abbondanti rispetto a quelli degli osservatori internazionali. E c’è da credere che anche questa volta sia così.

Nel 2014, insoddisfatti dell’affluenza alle urne, gli organizzatori del voto hanno deciso di allungare di un giorno l’apertura dei seggi. Quest’anno sono partiti mettendo in programma tre giorni di voto, ma dal secondo hanno eliminato la chiusura di un’ora dei seggi per permettere la pausa pranzo. In aggiunta, tra coloro che sono realmente andati alle urne, ci sono quanti sono stati “caldamente invitati” a farlo. Alcuni sono stati prelevati da casa con appositi pullman che hanno fatto il servizio navetta. Altri hanno ricevuto derrate alimentari di diversa entità nelle settimane precedenti al voto. È quindi evidente che tra quanti sono andati a votare non è unanime e spontaneo il sostegno ad Al-Sisi.

Al contempo però è anche vero che non tutti quelli che sono stati a casa lo hanno fatto per esprimere dissenso. Gli afferenti al ‘hizb al qanapa’, ovvero il partito del divano, non si sono scomodati perché dando per scontata la vittoria del raìs sentivano che il loro voto non avrebbe avuto alcun valore.

La composizione dell’elettorato e la mancanza di alternative
Se il dato dell’affluenza non è quindi la cartina tornasole della questione, un’osservazione della composizione dell’elettorato che si è attivato è interessante. Ad entrare nelle scuole sono stati soprattutto i più anziani. Pochissimi i giovani visti in fila, o in giro per strada con il dito ancora rosso a causa dell’inchiostro utilizzato per votare.

I più giovani, e con loro quanti non sostengono Al-Sisi, non sono andati a votare perché non avrebbero trovato alcun volto alternativo al quale affidare il loro voto. Moussa Mustafa Moussa, lo sfidante candidatosi – letteralmente – all’ultimo minuto, è considerato da buona parte degli osservatori un candidato fantoccio, che si è prestato alla commedia del regime per dare alle elezioni una parvenza di competizione. Lui stesso – che non ha praticamente fatto campagna elettorale ed è sconosciuto alla maggioranza degli egiziani – non ha fatto molto per negarlo. Anzi ha detto chiaramente che qualora non avesse vinto non avrebbe fatto opposizione ad Al-Sisi, ma lo avrebbe aiutato a realizzare il suo programma, magari combinandolo con punti del suo. Tutti gli altri candidati che avevano provato a sfidare Al-Sisi sono stati costretti – con modalità diverse – a ritirarsi.

Nella lista dei nomi dei candidati banditi ci sono anche quelli del generale Sami Anan – ex membro del potente Consiglio supremo delle forze armate egiziane (Scaf) che era stato licenziato dal presidente islamista Mohammed Morsi–  e di Ahmed Shafiq, ultimo primo ministro di Mubarak e suo più fedele gattopardo. Persone interne al regime, se non addirittura personaggi con un certo potere all’interno dell’esercito, l’istituzione che tiene in pugno il Paese. Il fatto stesso che abbiano tentato di candidarsi e siano stati fermati in maniera brutale mette in discussione la compattezza dei vertici.

Verso una presidenza a tempo indeterminato?
È anche in tale ottica che vanno interpretate le voci circolate qualche settimana prima dell’inizio della “campagna elettorale”, quando all’interno del Parlamento si è iniziato a ipotizzare un disegno di legge per emendare quell’articolo della Costituzione che limita a due i mandati presidenziali.

Difficile pensare che se ne torni a sentire parlare a breve, ma quando il Parlamento si rinnoverà, se nei piani alti dell’esercito non si sarà trovato un equilibrio che soddisfi tutti, potrebbe tornare in auge. Considerando che attualmente il potere legislativo non fa che approvare le decisioni prese dall’esecutivo, non sarebbe difficile portare avanti un progetto simile. Per mettere le mani avanti, chi ha avanzato questa proposta ha detto che, come previsto dalla Costituzione del 2014, l’ultima parola spetterebbe al popolo che dovrebbe esprimere la sua volontà in un referendum. Ma l’articolo 226 della Costituzione parla chiaro: nessun emendamento possibile sul tema della rielezione del presidente.

Per rimanere ulteriormente al potere, Al-Sisi dovrebbe quindi prima riscrivere la Costituzione. Tale operazione sarebbe però bizzarra, visto che il nuovo testo è stato scritto dopo il colpo di stato con il quale il generale è andato al potere, proprio per sostituire la Costituzione redatta subito dopo la rivoluzione. Per i generali sarebbe probabilmente più semplice – e anche meno imbarazzante – iniziare a cercare un delfino del raìs.

Foto di copertina © Mahmoud Abdelghany/DPA via ZUMA Press