Usa: dazi, Trump spezza il breve idillio con il partito repubblicano
I rapporti tra Donald Trump e una quota consistente del Partito repubblicano non sono mai stati troppo cordiali. Eppure, alla fine del 2017, le cose erano cambiate. L’approvazione di una riforma fiscale in puro stile reaganiano sembrava aver finalmente portato la pace tra il presidente e le alte sfere dell’Elefantino: quelle alte sfere che non avevano mai nascosto un certo fastidio nei confronti del miliardario, considerandolo nulla più che un outsider eretico. A maggior ragione, la forte detassazione varata a dicembre sembrava aver ricondotto il presidente nell’alveo della più pura ortodossia repubblicana, sancendo l’inizio di un idillio con il Grand Old Party. Un idillio che – tuttavia – sembra essersi già infranto.
Eh sì, perché con l’inizio del 2018 Trump si è intestato una serie di battaglie che, a ben vedere, con il Partito repubblicano c’entrano ben poco. A partire dai temi economici. Negli ultimi giorni, il miliardario ha infatti rispolverato le tesi protezioniste che tanto aveva cavalcato ai tempi della campagna elettorale. Così, l’8 marzo, Trump ha imposto pesanti dazi sull’import di acciaio e alluminio. Dazi che, se dovessero divenire effettivi, nel giro di due settimane, colpirebbero principalmente la Cina e alleati storici come l’Unione europea. E, per quanto il presidente abbia ammorbidito la sua linea nei confronti di Messico e Canada, il subbuglio non è poco: a partire da un certo nervosismo dei mercati finanziari.
Una mossa elettorale verso il voto di metà mandato
La mossa del presidente trova la propria ragione innanzitutto in dinamiche di politica interna. Il prossimo novembre, si terranno le elezioni di metà mandato, con cui si rinnoverà la totalità della Camera e un terzo del Senato. In questo delicato frangente, il magnate rischia di ritrovarsi con un problema di immagine. Nonostante, infatti, la riforma fiscale abbia rappresentato un suo indubbio successo, è altrettanto vero che quella defiscalizzazione è stata da molti considerata come un ingiusto aiuto alle classi abbienti. Un elemento che ha infastidito non poco lo zoccolo duro dell’elettorato trumpiano: la classe operaia impoverita della Rust Belt. Una quota elettorale che il prossimo novembre potrebbe rivelarsi dirimente.
Trump vuole insomma evitare di passare come il “presidente dei ricchi”. Ed è probabilmente per questo che ha recuperato le tesi protezioniste della campagna elettorale. Il presidente ha d’altronde affermato che queste misure sono una risposta a un deficit commerciale di circa 800 miliardi di dollari, aggiungendo di voler tutelare 100.000 posti di lavoro americani. In questo senso, il magnate vuole tornare a incarnare il ruolo del protettore dell’economia nazionale, ribadendo al contempo – sul fronte geopolitico – l’idea dell’America First.
L’effetto boomerang delle misure protezionistiche, esterni ed interni
Tutto questo ha suscitato non poche polemiche. Molti economisti sostengono che i dazi finiranno per rivelarsi un’arma a doppio taglio, arrivando a danneggiare ampi settori dell’economia statunitense (dall’energia all’automobile, passando per l’agricoltura). L’Unione europea, dal canto suo, si è detta intenzionata ad attuare una serie di ritorsioni commerciali, in grado di colpire determinati prodotti americani: dolciumi, tabacco, bourbon e succo d’arancia, ma anche le Harley Davidson. Tutto questo, mentre 11 Paesi del Pacifico (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam) hanno firmato un accordo commerciale molto simile a quella Trans Pacific Partnership, stracciata mesi fa proprio dallo stesso Trump.
Tuttavia, è proprio sul versante politico interno che si ravvisano gli scossoni più forti. Alla Casa Bianca, il consigliere economico di Trump, Gary Cohn, ha deciso di dimettersi in polemica con queste politiche protezioniste. Senza dimenticare i profondi malumori che stanno attraversando il Partito repubblicano. Al Senato, non sono pochi i rappresentanti dell’Elefantino che hanno criticato i dazi trumpiani. Alla Camera, molti deputati del Grand Old Party stanno invece chiedendo al presidente di alleggerire questa linea, limitandosi a tariffe mirate e circoscritte. Tutto questo mette chiaramente in evidenza come Trump si stia ponendo in contrasto con parte cospicua dell’ortodossia reaganiana. Anche perché – è bene rilevarlo – svariati deputati democratici della Rust Belt stanno in queste ore elogiando i dazi del presidente, riecheggiando di fatto le tesi protezioniste avanzate dal senatore socialista Bernie Sanders ai tempi dell’ultima campagna elettorale.
Uno sguardo ai precedenti
Certo: se si guardasse con attenzione alla storia, queste novità andrebbero in realtà ridimensionate. Non dimentichiamo infatti che, negli Anni ’80, anche Reagan impose pesanti dazi ad alcuni prodotti giapponesi (dalle automobili alle motociclette, passando per i semiconduttori). E quelle tariffe ebbero conseguenze in chiaroscuro: se da una parte si rivelarono un danno oggettivo per i consumatori americani, dall’altra costrinsero tuttavia Tokyo ad abbandonare pratiche commerciali scorrette. Se dunque la novità del protezionismo trumpiano va forse parzialmente smorzata, è pur vero che – sul fronte dell’immagine e dell’impatto mediatico – rappresenti un vero e proprio detonatore in seno al Partito repubblicano. E, proprio come accadde la scorsa estate sul tema sanitario, non è escluso che il presidente possa ritrovarsi a fronteggiare una pericolosa fronda in Senato. Guidata, magari, dal nemico (repubblicano) Ben Sasse, che – non a caso – ha criticato duramente i dazi del presidente.
Ma il protezionismo non è l’unica fonte di attrito tra Trump e l’Elefantino. Un’altra questione spinosa è quella delle armi. Dopo la strage al liceo di Parkland in Florida, il presidente si è detto favorevole a introdurre una serie di restrizioni che vanno nella direzione opposta a quanto storicamente auspicato dalla lobby delle armi e dallo stesso Partito repubblicano. D’altronde, su questo tema la posizione di Trump è sempre risultata piuttosto ondivaga.
Il tema delle armi e le posizioni ondivaghe
Quando si candidò nel 2000 con il Reform Party, il miliardario sosteneva una posizione tendenzialmente moderata, auspicando maggiori restrizioni sul possesso e la diffusione delle armi. Le cose sono radicalmente cambiate quando, nel 2015, scese in campo per la nomination repubblicana. Da allora, il magnate è diventato tra i maggiori sostenitori della lobby delle armi, ricevendone anche cospicui finanziamenti elettorali. La capriola era principalmente motivata dalla volontà di accattivarsi le simpatie dell’elettorato conservatore più tradizionale, che – soprattutto negli Stati meridionali – guardava a Trump con una certa diffidenza. Adesso, si è verificata una nuova giravolta.
Probabilmente, con il consueto fiuto elettorale che lo contraddistingue, il presidente s’è convinto che l’opinione pubblica americana si stia man mano spostando su posizioni molto critiche nei confronti della lobby delle armi. Non è quindi escluso che, come nel caso del protezionismo, i pensieri del presidente siano rivolti alle elezioni del prossimo novembre. Ciononostante potrebbe verificarsi un cortocircuito: perché quella stessa Rust Belt, che Trump cerca di conquistare a suon di dazi, potrebbe non gradire troppo la svolta restrittiva sulle armi. Il magnate sta quindi cercando di percorrere una via strettissima, ai limiti della contraddizione, giocandosi di fatto il proprio destino politico.
Contraddizioni e populismo
Ma come si spiegano queste linee contrastanti e – a tratti – confuse? Probabilmente con due ragioni. La prima – la più ovvia – risiede nell’approccio populista della leadership di Trump. Il magnate è difatti abituato a seguire gli umori più forti nell’elettorato, assecondandone le inclinazioni più rilevanti e politicamente significative. Questo lo porta inevitabilmente ad intestarsi battaglie eterogenee e trasversali, che lo pongono al di là della tradizionale dialettica tra democratici e repubblicani.
In secondo luogo, c’è tuttavia una ragione forse più profonda, che inerisce alla natura intrinsecamente mutevole dei partiti americani. La storia mostra infatti che questi ultimi sono grandi contenitori fluidi: pronti a cambiar pelle, in base ai differenti contesti sociali, economici e politici. Per intenderci, il Partito repubblicano di Eisenhower e Nixon non era il Partito repubblicano di Reagan. In questo senso, proprio la spinta potente, che Reagan riuscì a dare all’Elefantino (innestandovi anche elementi democratici), nel corso dei decenni ha inevitabilmente finito con l’esaurirsi.
Tanto che, se guardiamo ai risultati delle elezioni presidenziali del 2008 e del 2012, il Partito era diventato sempre più una forza di minoranza: un fortino assediato e incapace di attrarre nuove frange elettorali. Sotto questo aspetto, è come se Trump – più o meno consapevolmente – stia in qualche modo cercando di aprire trasversalmente il Grand Old Party a quote elettorali più ampie e variegate. Che poi abbia effettivamente le capacità politiche per governare questa complicata opera di trasformazione, è un altro discorso.