Myanmar: via il presidente, ma la democratizzazione continua
Nel marzo 2016 era stato eletto in Myanmar il primo presidente non imposto da un regime dopo il colpo di stato del 1962: l’economista Htin Kyaw. Due anni dopo, il 21 marzo scorso, l’intellettuale birmano ha rassegnato le dimissioni anticipate dalla carica.
Si affaccia così subito l’ipotesi di una crisi ci governo che potrebbe inficiare il faticoso processo di democratizzazione del Paese; anche se è più probabile che questa fase di passaggio innescata dalle dimissioni di Htin, non interamente dipendenti da cause politiche, dia un impulso positivo al cammino del Myanmar verso la democrazia. Seppure il gesto del presidente si leghi naturalmente alla crisi che ha portato al sanguinoso intervento birmano sull’etnia Rohingya, la minoranza di fede musulmana nella regione del Rakhine, questa sembrerebbe non essere l’unica causa, accompagnandosi quantomeno ad alcuni problemi di salute che hanno costretto Htin a lasciare il Paese anche per affrontare delle cure all’estero.
Il dramma dei Rohingya
Nella strada per la democratizzazione sembrano tendenzialmente ricorrere varie fasi. In uno degli studi più rilevanti e recenti, Pietro Grilli di Cortona ha sottolineato che all’abbattimento del regime non democratico (rappresentato in questo caso dal governo militare instaurato nel 1962) segue l’instaurazione del primo embrione di forma di Stato democratico ed una successiva fase di stabilizzazione. La fase di stabilizzazione può, in taluni casi, anche subire degli arresti che inficiano negativamente l’intero processo.
Quanto sta avvenendo al presidente uscente di Naypyidaw potrebbe essere null’altro che il frutto dell’impasse di tale processo e portare ad un definitivo arresto del cammino verso l’opzione della democrazia o essere il segnale del tentativo di rinnovamento della classe politica democratica. È chiaro che, se gli obiettivi principali del governo eletto erano un armonico perseguimento dello sviluppo economico, una politica internazionale di apertura verso l’Occidente ma capace di mantenere i profondi legami con il panorama asiatico e il superamento dei conflitti etnici, i risultati sono stati mediocri.
Il caso più eclatante fra i fallimenti del governo della Lega nazionale per la democrazia (Lnd) è stato il quello del Rakhine, dove, a seguito di un attacco dei ribelli perpetrato contro le forze governative il 25 agosto, si è scatenata una sproporzionata e incontrollata repressione contro la popolazione di etnia Rohingya. Il caso internazionale originatosi, al di là dei numeri impressionanti di decessi e rifugiati causati dalle operazioni di controguerriglia e vera e propria rappresaglia dell’esercito birmano, ha più volte portato ala ribalta, con connotazioni negative, il Myanmar ed il suo caldeggiato processo di democratizzazione.
Per dare la misura dell’enorme stigma che il governo birmano sta attirando su di sé nello scenario internazionale basti pensare che se la versione ufficiale delle Nazioni Unite è quella di gravi violazioni dei diritti umani, c’è però il sospetto di “pulizia etnica” ai danni dei Rohingya, mentre l’Alto Commissario per i diritti umani Zeid Raad al-Hussein ha apertamente parlato di genocidio, data la sistematicità e l’ampiezza dei crimini commessi. Le risposte del governo di Myanmar in questi ultimi mesi sono state di una sconcertante ambiguità e, a seguito di incomprensibili silenzi e chiare azioni di ostruzionismo, come l’impedimento alla rappresentante speciale delle Nazioni Unite Yanghee Lee di entrare nel Paese.
Nell’orbita cinese
L’immagine negativa addensatasi attorno al governo di Myanmar ha finito per incrinare i rapporti con l’Occidente, in particolare con l’Unione europea, che ha in mente procedimenti sanzionatori che vadano a colpire selettivamente i membri del governo. In una tale situazione internazionale, Naypyidaw sta andando a legarsi a doppio filo alla Cina che ha appoggiato il governo del Myanmar in seno al Consiglio di Sicurezza rispetto alla crisi in atto nel Rakhine.
Questo meccanismo, oltre ad essere fallimentare nella visione di una differenziazione delle alleanze, porterà Myanmar ad entrare sempre più nell’orbita della Cina, dipendendo maggiormente da Pechino.
Infine, il terzo dato negativo per il Paese è stato in campo economico: il Pil del Myanmar ha subito un decremento nel 2015 ed un leggero recupero nel 2016 (primo anno del governo della Lnd). Come andamento generale, la lentezza dell’esecutivo nell’intraprendere iniziative di supporto all’economia ed al commercio, oltre che l’inconcludenza di una struttura burocratica sclerotizzata (come evidenziato in un recente intervento dell’Economist) restano comunque il dato principale.
L’ombra di Aung San Suu Kyi
La presidenza di Htin Kyaw era stata concepita, sin dall’inizio, come una reggenza in favore della reale dirigente della Lega: Aung San Suu Kyi, impossibilitata a ricoprire ufficialmente il ruolo istituzionale di presidente per essere stata sposata e aver avuto figli con un cittadino straniero.
Come una sorta di eminenza grigia che ha retto le fila della nuova classe dirigente del Paese, Aung San Suu Kyi ha forse finito per oscurare la nuova élite e rallentarne i passi. D’altronde, l’esecutivo del Myanmar ha forse peccato di incertezza, non interferendo in maniera adeguata con l’apparato statale ereditato dal precedente regime ed ancora forte e radicato (che ha poi sostanzialmente diretto la repressione militare dei Rohingya).
La leader della Lnd aveva sempre cercato di evitare il confronto internazionale sulla situazione di sicurezza interna nel suo Paese in questi ultimi due anni, ma proprio in questo mese ha dato un forte segnale di apertura alla cooperazione chiedendo l’aiuto dei Paesi dell’Asean (l’associazione delle nazioni del sud-est asiatico) e della comunità internazionale per risolvere in maniera costruttiva la crisi nel Rakhine.
La richiesta è stata formalizzata al termine di un vertice Asean in Australia, ma coinvolge tutta la comunità internazionale e lascia pensare ad un tentativo di risollevare la situazione politica del Paese partendo dalla ricostruzione di una governabilità che non prescinde (date le dimissioni del presidente) dalla ricostruzione di una classe politica.
Foto di copertina © U Aung/Xinhua via ZUMA Wire