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Un Paese verso la disgregazione

Yemen: la prova di forza dei secessionisti di Aden

1 Feb 2018 - Eleonora Ardemagni - Eleonora Ardemagni

Tre governi, (quasi) due golpe: lo Yemen ha compiuto un altro passo verso la disgregazione totale. Dopo mesi di tensioni, i secessionisti del Consiglio di Transizione del Sud (Stc), fin qui sostenuti dagli Emirati Arabi Uniti (Eau), hanno sferrato e vinto la prova di forza militare contro le unità delle istituzioni riconosciute,  appoggiate dall’Arabia Saudita. In tre giorni di combattimenti, tra il 28 e il 30 gennaio, i separatisti hanno preso il controllo di Aden, circondando persino il palazzo presidenziale (il presidente Abd Rabu Mansur Hadi è sempre a Riad, ma dentro c’era il governo). Dopo il colpo di stato degli insorti huthi a Sana’a (gennaio 2015), l’esecutivo yemenita si è infatti trasferito nella seconda città del Paese, nonché suo fulcro commerciale.

Strategie parallele
Per ora, i secessionisti hanno scelto di negoziare – da una posizione di forza – con la Coalizione militare araba: tregua (per quanto?) in cambio di maggior autonomia e forze militari indipendenti, con appoggio formale alla presidenza Hadi. Emissari sauditi ed emiratini, qui rivali a causa di strategie parallele divenute insostenibili, sono ad Aden per monitorare l’applicazione dell’accordo. D’altronde, Riad e Abu Dhabi hanno avuto, da subito, priorità diverse in Yemen: la lotta agli huthi, quindi all’Iran, nel confinante nord per i sauditi, il contrasto a Fratelli musulmani e jihadisti per gli emiratini, che intrecciano nel sud interessi commerciali (porti) e militari (profondità strategica) dal respiro regionale.

Fisionomia dei secessionisti
Il Stc, fondato nel maggio 2017 dall’ex governatore di Aden, Aidarous Al-Zubaidi, aveva lanciato un ultimatum all’esecutivo, accusato di malgoverno e corruzione: una settimana per dimettersi. Quando gli indipendentisti hanno cercato di entrare ad Aden per manifestare contro il governo (a ultimatum scaduto), la Guardia presidenziale pro-Hadi è intervenuta e sono iniziati gli scontri. Il premier Ahmed bin Dagher ha chiesto, invano, l’intervento militare della Coalizione contro i separatisti, denunciando il tentativo di “secondo golpe”.

Chi sono i secessionisti? Il Stc nasce dalla lunga stagione di protesta del Movimento Meridionale (Al-Hiraak Al-Janubi), forza popolare e pacifica fondata nel 2007, quando i militari sudisti, licenziati dall’esercito unitario dopo la sconfitta nella guerra civile del 1994, occuparono le piazze contro il regime a monopolio settentrionale di Ali Abdullah Saleh.

Il ruolo degli Emirati
I separatisti non avrebbero potuto diventare così forti senza l’aiuto degli emiratini. Infatti, proprio Abu Dhabi ha organizzato, addestrato, armato e finanziato numerose milizie su base regionale, poi formalmente affiliate al ministero dell’Interno o all’esercito yemenita, ma che di fatto rispondono agli Eau (anche in Hadhramaut, Shabwa e Al-Mahra).

Protagoniste ad Aden sono le Security Belt Forces, incaricate di contrastare huthi e jihadisti di Al-Qaida nella Penisola arabica (Aqap), nonché di stabilizzare il territorio. Composte da secessionisti, salafiti ed ex militari della Repubblica Democratica Popolare dello Yemen (PdrY), queste forze sono ora al centro della lotta indipendentista contro Hadi e i filo-sauditi. Il Stc le ha appena raggruppate nelle Forze di Resistenza del Sud (Southern Resistance Forces), un proto-esercito: a guidarlo è il generale Munir Al-Yafa’i, dell’omonima e influente confederazione tribale.

Conseguenze della crisi
La crisi di Aden potrebbe avvantaggiare huthi e jihadisti, che potranno recuperare territori persi o controllare zone finora contese: filo-governativi e secessionisti convoglierebbero le loro forze sulla città, lasciando sguarnite le tante linee del fronte. Oggi, l’Islam politico yemenita è sempre più polarizzato, con confini fluidi e confusi tra Fratelli musulmani, salafiti, jihadisti. In particolare, i salafiti sono meno quietisti e più politicizzati, in alcuni casi militarizzati, come ad Aden, città sunnita. Con i fronti in progressiva frantumazione, la risoluzione 2216 delle Nazioni Unite non può più essere la base negoziale: approvata nell’aprile 2015, essa racconta di attori e alleanze che non ci sono più (compreso il defunto presidente Ali Abdullah Saleh). Il  cambio dell’inviato Onu in Yemen, previsto alla fine di febbraio, potrebbe dare un input in questa direzione.

Micro-poteri locali
Lo Yemen non è mai stato uno Stato, nel senso westphaliano del termine: Saleh amava definire le istituzioni come “tribù di tribù”. Tuttavia, dopo la rivolta del 2011, si assiste alla disgregazione formale della contestata unità yemenita, con l’insorgere delle periferie: prima gli huthi nel nord più tribale, ora i secessionisti in quella porzione di sud che fu socialista, con i clan tribali che pesano meno rispetto alle identità regionali. Sarebbe miope credere che un nuovo ‘Yemen del sud’ possa essere coeso: gli yemeniti meridionali sono uniti contro le istituzioni centrali e i nordisti, ma assai divisi fra loro su risorse, leadership e power-sharing (come l’Hadhramaut e Al-Mahra nell’est, ma anche Abyan e Lahj nel sud tribale). La guerra civile del Sud, datata 1986, lo ha già dimostrato: i capi politico-tribali di oggi sono ancora quelli. Più armati di ieri e con generosi sponsor regionali.