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Aspiranti alla nomination

Usa 2020: democratici, dinastie e outsider, anti-Trump cercasi

23 Feb 2018 - Stefano Graziosi - Stefano Graziosi

Tra successi e battute d’arresto, la presidenza di Donald Trump va avanti. E, con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali del 2020, cui mancano poco meno di mille giorni, il Partito Democratico sta pian piano iniziando a cercare candidati in grado di sfidare l’attuale inquilino della Casa Bianca. I nomi che circolano da alcune settimane non sono pochi, testimoniando l’esistenza di un dibattito interno serrato (e un po’ confuso). Al momento, tra i più gettonati compare la figura di Joe Kennedy: 38 anni, pronipote di JFK, è deputato alla Camera per il Minnesota.

Abbastanza vicino alla corrente liberal, è stato il politico scelto dai democratici per pronunciare la tradizionale risposta al discorso presidenziale sullo stato dell’Unione. Qualcuno l’ha considerata già come una sorta di investitura ufficiosa. L’idea, in sostanza, sarebbe quella di ricorrere alla sua immagine giovane e – soprattutto – al nome altisonante: quasi un voler combattere Trump attraverso un pezzo di storia democratica.

L’universo liberal delle Grandi Famiglie e dei Grandi Vecchi
Discorso parzialmente analogo vale per un altro papabile candidato: il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo. Anche lui figlio d’arte (suo padre era quel Mario Cuomo, che guidò l’Empire State dal 1983 al 1994), Andrew dispone di una potenza finanziaria non indifferente e gravita anch’egli attorno all’ala liberal del Partito Democratico (soprattutto per quanto riguarda le tematiche eticamente sensibili). Anche lui, in qualche modo, risulta legato all’universo kennediano, essendo stato sposato in passato con la figlia di Bob Kennedy, Kerry.

Un altro nome particolarmente quotato è quello dell’ex vicepresidente, Joe Biden. Qualora scendesse in campo, non sarebbe di una notizia troppo inattesa. Il vecchio Joe non ha mai nascosto di nutrire delle ambizioni presidenziali: ci ha già provato, con risultati piuttosto scarsi, nelle primarie democratiche del 1988 e del 2008. Nel 2015, molti big democratici speravano in una sua candidatura, per impedire che Hillary Clinton monopolizzasse il partito. Non se ne fece nulla. Adesso, molti media americani sottolineano un certo iperattivismo da parte dell’ex vicepresidente che – si dice – sarebbe pronto ad impegnarsi per un solo mandato presidenziale (vista l’età avanzata).

Un altro nome che circola fra i democratici è quello dell’ex segretario di Stato, John Kerry.

Anche lui è uno ‘sconfitto d’eccellenza’, in quanto fu battuto da George W. Bush nelle presidenziali del 2004. Kennedy, Cuomo, Biden e Kerry incarnano profili politici relativamente simili. Tutti e quattro sono collocati su posizioni di centrosinistra: un elemento che potrebbe tornare utile per federare un partito attualmente dilaniato da una lotta intestina tra democratici moderati e radicali.

Sanders e la Warren, i volti della sinistra
E, proprio sul fronte della sinistra, sono due le figure che potrebbero scendere in campo. Innanzitutto abbiamo Bernie Sanders. Forte della campagna elettorale condotta nel 2016, il senatore del Vermont sta continuando la sua battaglia in seno al partito dell’asinello e ha già manifestato un certo interesse a correre per le prossime presidenziali con un programma molto spostato a sinistra (soprattutto in materia sanitaria).

Sempre in quest’ambito, un’altra figura che potrebbe candidarsi è quella della senatrice Elizabeth Warren: agguerrita nemica dell’alta finanza, ha un discreto seguito in particolare tra i giovani. Ciononostante, alla prova dei fatti, si è sempre rivelata l’eterna promessa della sinistra americana. Non ha evidentemente le stesse capacità strategiche ed organizzative del vecchio Bernie: ragion per cui è forse più probabile considerarla una candidata alla vicepresidenza.

Tutto questo non fa che restituirci un’immagine spaccata del Partito Democratico: una compagine che fatica a trovare una sintesi e a compattarsi attorno a princìpi comuni. Il problema infatti non è tanto la presenza di numerosi candidati potenziali. Il punto, semmai, è che il partito dell’asinello si trova in una situazione di profonda confusione, non riuscendo a trovare una linea politica che vada al di là del (pur legittimo) ostruzionismo nei confronti di Trump.

Un partito sempre più vecchio, che – dopo i fasti dell’età obamiana – non sembra essere in grado di rinnovarsi, riproponendo politici obsoleti (Biden e Kerry) o candidati dinastici (Cuomo e Kennedy): una situazione tanto più seria alla luce del clima di crescente anti-politica che caratterizza ormai da alcuni anni la vita politica americana.

Insomma, proseguendo su questa china, il Partito Democratico rischia di invischiarsi nell’autoreferenzialità o nel settarismo barricadiero: due strade che non farebbero altro che assicurare a Trump un secondo mandato alla Casa Bianca.

Una partita da giocare con possibili outsider
Certo: la partita è ancora tutta da giocare. E, questo marasma, potrebbe inserirsi Julian Castro: giovane ex ministro di Barack Obama, è fortemente spostato a sinistra sulle questioni etiche, mentre in materia sociale si mostra tendenzialmente più moderato. All’inizio del 2016, il suo nome circolò come papabile candidato alla vicepresidenza con Hillary Clinton: una ipotesi poi naufragata.

Castro ha recentemente dichiarato di essere interessato a correre nel 2020. Ed in effetti la sua figura potrebbe teoricamente offrire quella sintesi programmatica di cui i democratici avrebbero bisogno. Senza contare poi che le sue origini ispaniche potrebbero renderlo attrattivo per le minoranze etniche: una quota elettorale che ha mostrato una certa freddezza per i democratici alle ultime elezioni. Castro, insomma, è uno dei pochi che sembrerebbe avere i numeri per farcela. Che abbia la forza poi di raggiungere un tale obiettivo, è un altro discorso.

Repubblicani: Trump tra malumori e mal di pancia verso il midterm
Tuttavia, se al momento i democratici hanno non pochi grattacapi, anche tra i repubblicani i malumori non mancano. Storicamente una parte cospicua del partito dell’elefantino non ha mai digerito granché Trump. Tant’è che, soprattutto sulla questione sanitaria,  svariati senatori del Grand Old Party hanno messo più volte i bastoni tra le ruote ai programmi del presidente.

A fine dicembre, con l’approvazione della riforma fiscale, questi dissidi sembravano essersi sopiti e Trump pareva essere finalmente riuscito a ricucire i rapporti con gran parte del ‘suo’ partito. Sennonché l’idillio è durato poco. Ben 14 senatori repubblicani (di varie correnti) hanno recentemente boicottato la proposta di Trump sulla regolarizzazione dei figli degli immigrati irregolari (i cosiddetti Dreamers).

Senza poi contare che, nell’elefantino, non sono pochi coloro che guardano con un certo fastidio alla riforma infrastrutturale presentata dal presidente: una riforma che prevedrebbe investimenti pubblici pari a circa duecento miliardi di dollari e che soprattutto i liberisti ortodossi considerano una forma di pericoloso statalismo. Come se non bastasse, altri poi non tollerano il peso crescente che alcuni parenti del magnate stanno acquisendo in seno allo staff presidenziale, a partire da sua figlia Ivanka.

Insomma, il miliardario rischia di ritrovarsi, ancora una volta, i peggiori nemici dentro quello che teoricamente dovrebbe essere il suo partito. E, qualora le elezioni di metà mandato del prossimo novembre dovessero andare male, non è escluso che – in vista del 2020 – qualche repubblicano possa cercare di contendere a Trump la nomination. Non sarebbe d’altronde la prima volta.

Nomination contese
Nel 1976, Ronald Reagan contestò per esempio al presidente uscente, Gerald Ford, l’investitura del partito per correre verso la Casa Bianca. Stessa cosa accadde a Jimmy Carter che, nel 1980, si vide contendere la nomination democratica da parte del senatore Ted Kennedy. Certo: è ancora presto per capire se una simile ipotesi potrà verificarsi nuovamente tra tre anni. Come detto, dirimente potrebbero rivelarsi le elezioni parlamentari del prossimo novembre.

Nel caso, a presentarsi potrebbero essere proprio i senatori Marco Rubio e Ted Cruz, già acerrimi nemici del miliardario durante la scorsa campagna elettorale. Entrambi non hanno digerito la sconfitta subìta ed entrambi rappresentano sacche dell’universo repubblicano che non vedono troppo di buon occhio l’attuale presidente. A tutto questo si aggiunga poi la recente notizia della candidatura di Mitt Romney per il seggio senatoriale dello Utah.

Ex governatore del Massachusetts e candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 2012, Romney ha sempre considerato Trump una sorta di usurpatore inetto. Nel corso del 2016, condusse una vera e propria guerra interna al partito, per cercare di mettergli i bastoni tra le ruote. Senza troppi risultati. Quando poi il miliardario riuscì a conquistare la Casa Bianca, tra i due si celebrò un timido disgelo, tanto che il nome di Romney circolò come ppssbile nuovo segretario di Stato. Tuttavia non se ne fece nulla. E i rapporti tra i due antagonisti sono tornati piuttosto tesi. Adesso, con questa sua (ennesima) discesa in campo, non si può escludere che il vecchio Mitt voglia tornare a guidare la fronda repubblicana contro Trump. E chissà che non stia meditando su una nuova corsa presidenziale.

Da entrambe le parti dell’agone politico, la situazione è abbastanza confusa. E, c’è da giurarci, Donald Trump farà leva proprio su questo caos, per presentarsi nel 2020 come l’unico candidato in grado di guidare la nazione. E, se non uscirà in fretta un’alternativa credibile, non è improbabile che il magnate possa alla fine ottenere un secondo mandato.