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Trump tra democratici e repubblicani

Usa: dopo stato Unione, nuova frontiera è riforma infrastrutture

5 Feb 2018 - Stefano Graziosi - Stefano Graziosi

La creazione di posti di lavoro ha sempre rappresentato une delle priorità programmatiche di Donald Trump: non a caso, lo zoccolo duro del suo elettorato è costituito dalla classe operaia impoverita della Rust Belt. E proprio a questa fetta di elettori si è principalmente rivolto il magnate presidente, nel contrastare la delocalizzazione dei posti di lavoro. Una prospettiva che, più in generale, si inserisce nella visione economica tendenzialmente protezionista dell’attuale Amministrazione statunitense. È in questo senso, d’altronde, che Trump ha avviato un processo di revisione e riforma dei principali trattati internazionali di libero scambio, sfilandosi dalla Trans Pacific Partnership e cominciando a rinegoziare il Nafta.

Un progetto prima accantonato e ora ripescato
A tutto questo, il presidente ha inoltre sempre aggiunto la necessità di una decisa riforma infrastrutturale: dai tempi della campagna elettorale, ha difatti ripetutamente sostenuto di volere varare un ambizioso piano di investimenti (pubblici e privati) dal valore di circa un trilione di dollari in dieci anni. L’obiettivo sarebbe quello di ammodernare e realizzare snodi infrastrutturali, assorbendo così buona parte della disoccupazione.

Il punto è che, nonostante le promesse elettorali, il presidente ha poi accantonato il progetto, forse anche perché buona parte del Partito repubblicano non ha mai mostrato una eccessiva simpatia per quella proposta. L’idea che debbano essere utilizzati ingenti finanziamenti pubblici per fare ripartire il settore infrastrutturale viene infatti visto da molti esponenti del Gop, il Grand Old Party, come un’inaccettabile forma di invasione statalista. Soprattutto i liberisti ortodossi considerano il progetto come qualcosa di inquietantemente simile al New Deal di Franklin D. Roosevelt.

In tal senso, è possibile che Trump abbia messo inizialmente da parte il piano per non inimicarsi troppo le alte sfere del suo partito. E non sarà allora un caso che abbia trascorso il primo anno della sua presidenza occupandosi di due questioni storicamente molto sentite dai repubblicani tradizionali: lo smantellamento dell’Obamacare, cioè della riforma sanitaria di Barack Obama, e il taglio delle tasse.

Due obiettivi fondamentalmente raggiunti: la riforma fiscale approvata alla fine dell’anno scorso non soltanto rappresenta il più vigoroso programma di defiscalizzazione dal 1986, ma include anche l’abolizione di un elemento nevralgico della sanità obamiana (cioè l’obbligo imposto ai cittadini di munirsi di un’assicurazione sanitaria). Alla luce di questi due successi, probabilmente Trump pensa adesso di avere ‘placato’ i repubblicani più duri. Ed è per questo che ha recentemente rispolverato la sua riforma infrastrutturale.

Un piano da 1.500 miliardi di dollari
Durante il suo primo discorso sullo stato dell’Unione, il presidente ha affermato di volere proporre un piano del valore di 1,5 trilioni di dollari per la riparazione delle infrastrutture fatiscenti. Nonostante non siano stati resi noti i dettagli, è abbastanza chiaro che Trump voglia adesso intraprendere un percorso che – prevedibilmente – lo metterà in contrasto con una parte del ‘suo’ partito. Anche per questo, durante il discorso sullo stato dell’Unione, il magnate ha teso la mano agli avversari democratici. Segno di come, probabilmente, sia consapevole di possibili fibrillazioni interne al Partito repubblicano. Ragione per cui, una riedizione della politica andreottiana dei due forni potrebbe rivelarglisi molto utile.

D’altronde, la questione infrastrutturale non è un capriccio fine a se stesso per il presidente. Come accennato, questa riforma sarebbe principalmente finalizzata ad assorbire la disoccupazione interna: in questo senso, Trump sa di non potere deludere la sua base elettorale. Soprattutto a pochi mesi dalle elezioni di metà mandato: quando, il prossimo novembre, si rinnoverà la totalità della Camera e un terzo del Senato.

La situazione infatti è abbastanza delicata. Un eventuale riequilibrio del Congresso a favore dei democratici non solo potrebbe determinare una paralisi istituzionale nei rapporti con la Casa Bianca. Ma, alla luce del Russiagate, l’ipotesi di un impeachment contro il presidente potrebbe farsi più concreta: non dimentichiamo, infatti, che la messa in stato d’accusa è un procedimento squisitamente politico, essendo istruita dalla Camera e votata dal Senato. Non a caso, tutti gli impeachment nella storia americana sono stati tentati con un Congresso in mano al partito avverso a quello del presidente in carica.

Il presidente punta alla riforma entro le elezioni di midterm
In virtù di tutto questo, è chiaro come Trump abbia stretta necessità di arrivare a un’approvazione della riforma infrastrutturale entro il prossimo novembre. Il punto è tuttavia capire quanta possibilità il presidente abbia di coinvolgere realmente parte dell’opposizione democratica nel suo progetto. Da una parte, il tema della riforma infrastrutturale è stato uno dei cavalli di battaglia propugnati dall’ala sinistra del partito dell’asinello (soprattutto dal senatore del Vermont Bernie Sanders). Dall’altra, è altrettanto vero che il livello di scontro tra Trump e i democratici è tornato altissimo in questi ultimi giorni.

Soprattutto dopo che il presidente ha dato il via libera alla diffusione di un memo, secondo cui l’Fbi e il Dipartimento di Giustizia avrebbero cercato – ai tempi di Barack Obama – di ostacolare fraudolentemente la sua campagna elettorale. Con questa mossa, Trump sta evidentemente cercando di controbattere energicamente alle accuse sul Russiagate. Tuttavia quest’aumento della tensione potrebbe gravare pesantemente sul futuro della riforma infrastrutturale.

Senza poi dimenticare la spinosissima questione dell’immigrazione, che è già stata al centro dello shutdown verificatosi qualche giorno fa. Anche qui, in occasione del discorso sullo stato dell’Unione, il presidente ha timidamente aperto ai democratici: ha proposto di regolarizzare quasi due milioni di immigrati irregolari, in cambio di fondi per la costruzione del muro al confine con il Messico e di un rafforzamento delle frontiere. Trump si trova quindi in una posizione molto delicata. Sospeso tra accondiscendenza e astio verso i democratici, dovrà mostrare molta abilità tattica per uscire vincitore da questa situazione. Il 2018, insomma, potrebbe rivelarsi l’anno decisivo per il suo destino politico.