Sudafrica: la resa di Zuma e il cammino in salita di Ramaphosa
La resa dei conti in Sudafrica deve ancora arrivare. Dopo le dimissioni forzate del presidente Jacob Zuma, messo con le spalle al muro dal segretario generale dell’African National Congress – e ora presidente ad interim – Cyril Ramaphosa e dalla maggioranza del partito di governo a causa delle centinaia di scandali in cui è coinvolto, si apre un futuro pieno di punti interrogativi.
Le istituzioni per ora hanno tenuto e la ‘nazione arcobaleno’, seppur molto diversa da quella sognata da Nelson Mandela, non ha offerto il triste spettacolo di cui con una certa frequenza sono protagoniste le élite africane in lotta per il potere.
In un sussulto di dignità, lo stesso Zuma, da nove anni aggrappato alla poltrona più prestigiosa dello Stato, e che fino al 13 febbraio aveva rifiutato di dimettersi, ha gettato la spugna alla vigilia dell’annunciato voto di sfiducia in Parlamento con un discorso alla nazione di 30 minuti, nel quale ha ribadito il “disaccordo con la decisione della leadership”, ma ha anche spiegato di essere sempre stato un “membro disciplinato dell’Anc”, sottolineando – elemento non scontato nel Continente – che “nessuna vita può essere perduta in mio nome”. Tradotto: l’uso e l’abuso del potere a fini di arricchimento personale o peggio – sempre negato da Zuma – non deve precipitare il partito che fu di Mandela nel caos e nella guerra civile il Paese.
Una maggioranza nera che ha i diritti, ma che resta povera
Magra consolazione per il Congress, la cui bandiera è stata prima la lotta al regime segregazionista bianco di Pretoria e poi, a partire dalle prime elezioni multirazziali del ’94 , la riscossa sociale della maggioranza nera, che oggi ha in teoria tutti i diritti –sanciti in una Costituzione tra le più avanzate del mondo –, ma è povera quanto prima. Può essere questa, però, la volta buona per una nuova chance?, dopo che anche il predecessore di Zuma , Thabo Mbeki, era stato costretto a dimettersi per avere –tra l’altro – interferito nelle indagini sull’allora suo vice -Zuma appunto – già accusato di corruzione.
Molto dipende dal nuovo leader del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, 65 anni, proclamato presidente dal Parlamento, ma che dovrà passare l’esame delle urne nelle presidenziali del 2019. Quando l’Anc rischia di perdere un primato finora quasi indiscusso, grazie anche alla rendita di posizione garantita non solo da Mandela, ma dagli altri grandi protagonisti del Congress. Nomi come Walter Sisulu, Govan Mbeki, Oliver Tambo, Albert Luthuli non dicono più di tanto ai giovani nati dopo la fine del monopolio bianco e l’unità nel ricordo della lotta comune contro l’apartheid non è più un collante.
I buoni propositi del nuovo presidente
“Cercherò di lavorare molto duramente per non deludere la gente del Sudafrica”, ha detto il neo presidente a conclusione del discorso tenuto dopo l’elezione, sottolineando “l’intento di continuare a migliorare la vita della nostra gente” e annunciando che la corruzione è “sugli schermi dei nostri radar”, cioè che la lotta contro il malaffare politico è una sua priorità. Altro punto qualificante dell’intervento, quello di “volere lavorare con tutti i partiti politici cominciando con l’avere incontri con i leader” di tutte le formazioni.
Un elenco di buone intenzioni che Ramaphosa, eletto in dicembre segretario dell’Anc. con una vittoria di misura sull’avversaria, ed ex moglie di Zuma, Nkosazana Dlamini, dovrà cominciare a rendere concrete ben prima del 2019 per evitare che la perdita dei consensi e del controllo di molte città nelle municipali del 2016 si trasformi in una disfatta nazionale. Il principale partito di opposizione, l’Alleanza Democratica, ha lasciato l’aula al momento del voto in disaccordo con la decisione dell’Anc di consentire a Zuma un’uscita di scena senza una formale incriminazione per corruzione. E questo per Ramaphosa non è un buon segnale.
Chi è Ramaphosa e che Paese è oggi il Sudafrica
Politico di razza ed ex sindacalista – peraltro con un invidiabile fiuto negli affari che gli ha fruttato un patrimonio di 450 milioni di dollari e la definizione di simbolo del capitalismo nero –, Ramaphosa conosce bene la sua gente. Fu leader del potente Num, (National Union of Mineworkers), il sindacato dei minatori sudafricani che a metà degli Anni ’80 mise in seria difficoltà l’apparentemente inamovibile regime razzista allora guidato da Pieter Botha. E sa che molte delle aspettative dei neri in cerca di riscatto sono andate deluse.
Il Sudafrica è tra i Paesi con il più alto squilibrio socio-economico: il 10 % della popolazione concentra il 66 % del reddito, secondo il World Inequality Report 2018. E se nel 1987 – secondo la stessa fonte – l’1% deteneva l’8.8% della ricchezza, la percentuale era salita al 19,2 % nel 2012. Aggiungendo che la disoccupazione nel Paese più ricco dell’Africa è attorno al 30%, il quadro delle difficoltà che il nuovo presidente dovrà affrontare è chiaro.
Difficile invertire il trend in pochi mesi, ma se Ramaphosa sarà in grado di dare un qualche segnale di fiducia potrebbe recuperare al partito quei consensi indispensabili alla ripresa di un Paese in recessione da anni . In fin dei conti il nuovo presidente è così ricco che può permettersi il lusso dell’onestà.