Russia: grattacapo Consiglio d’Europa
Lo scenario peggiore sembra scongiurato. Dopo 22 anni di adesione, la Federazione russa continuerà ad essere membro del Consiglio d’Europa. A metterlo in chiaro ci ha pensato, lo scorso dicembre, Valentina Matvienko, presidente del Consiglio federale (la Camera alta del Parlamento russo), secondo la quale l’abbandono dell’organizzazione internazionale con sede a Strasburgo non rientra nell’interesse russo. Al contrario, sembrano quasi tutti d’accordo nel negoziare una via d’uscita dall’impasse.
Esclusione dei parlamentari e tagli al budget
I 18 parlamentari russi che compongono la delegazione russo all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (Pace) si sono visti sospendere il diritto di voto il 10 aprile 2014, un mese dopo l’annessione illegale della Crimea. La sanzione è stata rinnovata nel 2015, e dunque Mosca ha deciso di rispondere in tre modi.
Innanzitutto, per tre anni di fila non sono state presentate le credenziali per accreditare la propria delegazione alla Pace, ripetendo lo schiaffo diplomatico da ultimo anche lo scorso gennaio. In secondo luogo, nel dicembre 2015, e anche se non in diretta risposta alla sospensione del voto, il Parlamento russo ha approvato una legge che permette alla Corte costituzionale di ribaltare le decisioni, altrimenti vincolanti, della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) – organo giurisdizionale istituito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali adottata dai Paesi del Consiglio d’Europa -. Infine, lo scorso luglio, il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha annunciato la sospensione della contribuzione russa al Consiglio d’Europa, circa 33 milioni di euro dei 454 totali di budget a disposizione dell’organizzazione.
Di sicuro a Strasburgo si comincia a temere per la tenuta dei conti. Un aspro report dello scorso aprile che condannava le violazioni della Turchia in tema di libertà d’espressione, e il conferimento in ottobre del premio sui diritti umani a un attivista considerato vicino a un’organizzazione gulenista, hanno provocato la decisione di Ankara di ridurre il contributo turco. La Turchia ha così abbandonato lo stato di ‘grande contribuente’ che aveva assunto solo nel 2016, accanto proprio a Russia, Italia, Francia, Germania e Regno Unito. Da notare che i sei Paesi da soli, fino alla crisi estiva, coprivano il 65 % delle spese di un’organizzazione composta da 47 paesi.
Chi non vuole Mosca fuori da Strasburgo
La Russia ha inoltre rafforzato la sua strategia difensiva compiendo una forte pressione su membri influenti del circolo di Strasburgo. Tra essi spicca il deputato Michele Nicoletti, neo-eletto Presidente della Pace, che nel suo discorso inaugurale ha rilevato la necessità di un attivo coinvolgimento di tutte le 47 delegazioni, esprimendo rammarico per l’assenza anche nel 2018 di una richiesta di accreditamento da parte della delegazione russa. In spirito conciliante, Nicoletti ha sottolineato che il dialogo coi parlamentari russi continua, in pieno rispetto dei regolamenti interni.
Ma altri supporter di un ritorno russo non mancano. Lo stesso Segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjørn Jagland, ha ricevuto pesanti critiche lo scorso autunno, dopo che il Financial Times aveva dato conto del giro di capitali compiuto proprio per di scongiurare l’abbandono da parte di Mosca. Jagland ha passato un messaggio chiaro e semplice: bisogna difendere il diritto di 140 milioni di russi di adire la Corte di Strasburgo, anche in considerazione del fatto che quegli stessi cittadini hanno depositato negli anni circa un terzo del numero totale di ricorsi.
E dello stesso parere è anche la direttrice per la Russia dell’organizzazione non governativa Human Rights Watch (Hrw), Tanya Lokshina, la quale ha dichiarato che la Cedu è risultata lo strumento che ha difeso al meglio i diritti dei cittadini russi in questo ultimo ventennio. I numeri, infatti, parlano di oltre 7000 ricorsi solo nel 2016, di cui 645 ammessi e 228 arrivati a sentenza: e in 222 di esse la Corte ha individuato violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo da parte della Russia. Tra queste bisogna includere i sette arresti condotti tra il 2012 e il 2014 nei confronti dell’oppositore politico Alexey Navalny, considerati “sproporzionati [rispetto] ad assemblee politiche pacifiche”, condannando Mosca al pagamento di 64.000 euro per danni morali all’avvocato russo.
L’ultima trovata del fronte pro-russo è la risoluzione 2186 dell’11 ottobre 2017, con la quale si mira ad armonizzare la rappresentanza statale nei due organi statutari della Pace e del Comitato dei ministri. Prendendo ad esempio il caso della Russia (presente al momento a livello ministeriale ma non in seno all’Assemblea parlamentare), la risoluzione richiama gli Stati membri a metter in funzione un gruppo di lavoro ad hoc per armonizzare le regole che governano la partecipazione e la rappresentazione degli Stati membri in entrambi gli organi al fine di “rafforzare il senso di appartenenza a una comunità”. Il gruppo di lavoro si è incontrato per la prima volta a fine gennaio e ha visto la partecipazione di Pyotr Tolstoy, vicepresidente della Duma (la Camera bassa) e di Konstantin Kosachev, presidente della commissione Affari esteri del Consiglio Federale. Il prossimo incontro è previsto in marzo a Parigi.
Le pressioni dell’Ucraina
I media, la diplomazia e i politici ucraini sono da mesi in ebollizione nel tentativo di bloccare, anche nell’opinione pubblica, il risorgere della volontà dei membri del Consiglio d’Europa di sollevare la Russia dalla condizione di paria in cui si è cacciata. Kiev è arrivata a minacciare il proprio ritiro dalla Pace se i russi dovessero far ritorno nell’emiciclo.
L’Ucraina può contare su numerose risoluzioni dell’Assemblea parlamentare che richiamano la Russia ad abbandonare l’occupazione del Donbass e della Crimea, ad evitare le minacce nei confronti dei leader tatari di Crimea e a rilasciare gli ostaggi del conflitto. Ultima, in ordine temporaneo, la risoluzione 2198 che nel gennaio scorso ha sollecitato, tra le altre cose, il Cremlino a “cessare il finanziamento alle forze armate illegali nelle regioni di Donetsk e Luhansk”.
Qualunque sia l’epilogo di questa ennesimo tenzone tra filo-russi e nemici del Cremlino, l’escamotage della risoluzione 2186 ha il vantaggio di bypassare una difficile negoziazione di natura politica attraverso una modifica regolamentare. Da un lato, un Comitato dei ministri compatto è necessario per l’implementazione delle sentenze della Cedu. Dall’altro, un’Assemblea parlamentare composta da 47 delegazioni avrebbe il merito di aprire un ulteriore canale di dialogo politico tra russi e ucraini, oggi limitato agli sporadici incontri del Formato Normandia con Germania e Francia (l’ultimo dei quali in origine previsto a margine della Conferenza sulla sicurezza di Monaco, ma poi rinviato) e del sistema Osce. Oltre al fatto che potrebbe risultare utile una pressione esercitata da Mosca per far tornare Ankara sui propri passi in termini di impegno economico nei confronti dell’organizzazione di Strasburgo.
La Russia, già messa in minoranza alle Nazioni Unite sull’annessione della Crimea, costretta a giustificarsi quotidianamente in ambito Osce, fuori dal G8 dei Paesi economicamente più sviluppati, in perenne tensione con la Nato, non vuole perdere un’ulteriore membership nelle organizzazioni internazionali. Il problema è che Vladimir Putin, così come il suo establishment, non accettano neanche di perder la faccia, a maggior ragione alla vigilia delle elezioni presidenziali che lo vedranno riconfermato al Cremlino per la quarta volta.
Foto di copertina © Consiglio d’Europa