Cina: accordi con la May, ma Hong Kong è nell’angolo
Ben arrivata in Cina, “Zia May”. Così i media di Stato e gli internauti dei social media hanno dato il benvenuto, il 31 gennaio scorso, alla premier britannica Theresa May nell’ex impero di mezzo. Con un appellativo che solitamente viene riservato agli alleati chiave di Pechino, i media cinesi hanno accolto la May in quello che è il fertile terreno di trattative economiche, investimenti finanziari e scambi culturali, durante la tre giorni della visita ufficiale della premier con tappa a Wuhan, Pechino e Shanghai.
Con lo sguardo puntato al 2019, anno dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, Theresa May si presenta in Cina con l’obiettivo di “intensificare l’epoca d’oro” della relazione tra i due Paesi, riecheggiando il linguaggio che il suo predecessore David Cameron aveva usato per corteggiare il presidente Xi Jinping nel 2015 a Londra.
I primi due giorni sono stati proficui per Pechino e Londra, che hanno firmato una dozzina di accordi commerciali dal valore di oltre 9 miliardi di sterline, in settori fra cui finanza, innovazione, agricoltura e tecnologia.
La visita della premier
Theresa May ritorna in Cina dopo il G20, tenutosi ad Hangzhou nel 2016, con la consapevolezza di dover affrontare le preoccupazioni internazionali per una Gran Bretagna che si appresta a uscire dal blocco europeo.
La premier britannica è arrivata in Cina con al seguito una nutrita delegazione commerciale composta da rappresentanti di multinazionali ma anche di piccole imprese e università, proprio per confermare la sua volontà di espandere le relazioni commerciali e culturali tra Gran Bretagna e la Cina.
Le basi per nuove iniziative di carattere economico sono state poste proprio a Wuhan, prima tappa del viaggio, dove Theresa May ha incontrato il premier cinese Li Keqiang. Nella città della Cina centrale, parte delle discussioni tra i due omologhi si sono concentrate sull’approvazione di accordi di oltre 500 mila sterline che prevedono il miglioramento e l’implementazione di scambi e programmi culturali, come il lancio del programma “English is great”, finalizzato all’insegnamento della lingua inglese agli studenti cinesi.
Tuttavia, la premier di Sua Maestà, come già mormorava il Financial Times, ha evitato di firmare un memorandum d’intesa che dà il sostegno ufficiale della Gran Bretagna alla Belt and Road Initiative, la Nuova Via della Seta lanciata da Pechino, a testimonianza della pressione che la Casa Bianca esercita su Downing Street.
Fra intese commerciali e diritti umani
La distanza fra i paradigmi incarnati da Washington e Pechino è stata confermata dall’incontro che la May ha avuto con il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping, il 1° febbraio a Pechino. Nella Diaoyutai State Guesthouse, Xi si è proposto nuovamente come la risposta alternativa al protezionismo degli Stati Uniti di Donald Trump e ha posto l’accento sulle questioni di sicurezza globale, minaccia nordcoreana, inquinamento, commercio, economia e sulla politica estera.
Theresa May torno a Londra soddisfatta, con la consapevolezza che la Cina può diventare una fonte ancora più importante di investimenti per la Gran Bretagna. Basti pensare che dal 2010 si è registrato un incremento del 60% del commercio britannico con Pechino e, solo nel 2016, alla Cina è stato destinato il 3.1% delle esportazioni di beni e servizi, mentre il 43% è andato ad altri Stati membri dell’Ue.
La May e Xi hanno parlato anche di politica estera, ad eccezione di Hong Kong. Perché l’ex colonia britannica ha subìto un amaro ko, nonostante l’appello dell’ex leader della Rivoluzione degli ombrelli, Joshua Wong, e la lettera inviata alla May dall’ultimo governatore britannico di Hong Kong, Chris Patten.
A poco è servito il flebile impegno della May a sollevare la questione delle violazioni dei diritti umani e politici a Hong Kong nei suoi incontri con il premier Li Keqiang: il discorso è stato chiuso con la promessa cinese di continuare a rispettare il mantra “un Paese, due sistemi”, la formula che garantisce piena libertà politica e sociale all’ex colonia britannica fino al 2047.
Ma sicuramente sarà un’altra promessa mancata per gli hongkonghesi e per i candidati democratici alle elezioni suppletive del Legislative Council del prossimo marzo.
Censura contro Demosisto
Da sabato 27 gennaio, i rappresentati del partito Demosisto, che riconosce i suoi natali nel movimento della Rivoluzione degli ombrelli del 2014, denunciano l’esclusione della candidata Agnes Chow Ting dalla corsa al prossimo turno delle elezioni per il consiglio legislativo dell’ex colonia britannica.
La candidatura dell’attivista democratica, intenzionata a correre per sostituire il compagno di partito Nathan Law Kwun-chung (decaduto dall’assemblea nel 2016 per giuramento improprio), è stata dichiarata invalida a causa della sua affiliazione al partito Demosisto che sostiene l’autodeterminazione per il popolo di Hong Kong.
Secondo quanto riportato da un comunicato rilasciato dai funzionari della Commissione per gli affari elettorali incaricati di approvare le candidature, “chi propone l’autodeterminazione o l’autonomia di Hong Kong non rispetta i punti sanciti dalla Hong Kong Basic Law e non può quindi concorrere per essere un legislatore”.
L’affare interno, però, sta ricevendo attenzione mediatica e politica globale, non solo per gli slogan delle proteste che ancora echeggiano dal 2014, ma anche per l’ammonizione giunta dall’Ue, che considera l’esclusione di una candidata sulla base della sua affiliazione politica non in linea con il rispetto dei diritti civili e politici contenuti nella formula “un Paese, due sistemi”, oltre a essere un rischio per la reputazione internazionale della società libera di Hong Kong.
Dura è stata la replica della chief executive in carica Carrie Lam, che ha respinto le accuse rivolte di repressione della voce democratica e dell’autonomia della città rivolte a Pechino, mentre Agnes Chow Ting – la candidata esclusa – ha ricordato, in un’intervista alla Hong Kong Free Press, come Demosisto sia sì promotore dell’autodeterminazione dell’ex colonia e dell’estensione del suffragio universale, ma che il programma del partito non propone l’indipendenza da Pechino.
Al posto della Chow, correrà un altro attivista democratico, ma non è improbabile che altri candidati saranno squalificati, mentre la May – che proprio a Pechino avrebbe potuto far valere la voce dell’ex colonia britannica, portando sul tavolo la questione dell’erosione dei diritti civili e politici dei suoi abitanti – ha sacrificato la libertà di Hong Kong sull’altare elle intese commerciali con la Repubblica popolare.