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La svolta di Juncker

Balcani: ‘nuova strategia’ Ue per allargamento

12 Feb 2018 - Laura Mirachian - Laura Mirachian

Non avevamo gradito, quattro anni or sono, che il presidente della Commissione europea Jean-Claude Junker, nell’assumere il mandato, dichiarasse che il processo di allargamento dell’Unione europea doveva fermarsi per “digerire le 13 adesioni intervenute negli ultimi dieci anni”. Tanto meno ci era parso opportuno motivare il fermo con una logica auto-referenziale anziché porre l’accento sugli standard dei Paesi in questione, tutti dei Balcani.

Gli anni fertili dopo le ‘crisi balcaniche’
Sul finire delle crisi balcaniche negli Anni ’90, infatti, la prospettiva di un’integrazione ravvicinata nell’Unione aveva costituito il principale incentivo alla pacificazione e alla stabilizzazione democratica della regione. Nel 1999 il Patto di Stabilità per i Balcani occidentali, preceduto nel 1993 dai severi “criteri di Copenaghen” per l’adesione, aveva avviato una strategia di accompagnamento. Nel 2003 il Vertice di Salonicco aveva formalmente sancito il sostegno alla prospettiva europea, definendo i Balcani “parte integrante” dell’Europa.

Con una coerenza esemplare, l’Italia aveva dal canto suo valorizzato l’Iniziativa Centro-Europea (InCE) – creata fin dal 1989 per facilitare il percorso verso l’Europa  dei Paesi di nuova indipendenza – e ne aveva  aggiornato obiettivi e composizione, raccordando la compagine alle istituzioni europee. Più tardi, nel 2000, con l’Iniziativa Adriatico-Ionica aveva perseguito analoghi obiettivi per i paesi rivieraschi e la Serbia.

Solo Slovenia e Croazia sfuggite alla ‘Balkan fatigue’
Poi era subentrata una ‘Balkan fatigue’, vuoi per le difficoltà riscontrate nella crescita degli standard democratici dei Paesi stessi – fondamentalmente lo stato di diritto, la divisione dei poteri, la lotta alla corruzione, il rispetto dei diritti umani e delle minoranze – vuoi per l’avvio della crisi che ha attanagliato l’Unione stessa a partire dal fallimento del Trattato costituzionale del 2004, aggravandosi progressivamente fino alle distonie del nostri giorni. Sono così passati quasi vent’anni.

Solo Slovenia e Croazia hanno superato la prova e aderito all’Unione, la prima bruciando i tempi nel contesto del grande allargamento del 2004 che ha coinvolto ben 10 Paesi, la seconda nel 2013 dopo laborioso negoziato. Gli altri sono rimasti indietro, o meglio si sono fermati alle tappe intermedie: lo status di “Paese candidato” per la Macedonia nel 2005 e per la Bosnia nel 2016, il lento avvio di negoziati per la Serbia nel 2013 e il Montenegro nel 2012. Ancora più indietro il Kossovo, tuttora non riconosciuto da cinque Stati membri e tuttora vigilato da strutture europee (Eulex) e Nato (Kfor).

Un altro mondo intorno, dalla Russia alla Turchia
Nel frattempo, il mondo è cambiato. Non più la Russia di Eltsin, che bene o male negli Anni ’90 ha accompagnato il movimento di espansione euro/occidentale nella Regione, ma quella assertiva di Putin apparentemente deciso a recuperare l’influenza che fu dell’Unione Sovietica in particolare laddove esistano assonanze culturali o linee di faglia strutturali; non più una Cina distante e disinteressata quale potenza ancora emergente, ma una Cina emersa a pieno titolo con il mega-progetto One Belt, One Road, la Nuova Cia della Seta che abbraccia anche i Balcani; non più la Turchia del primo mandato di Erdogan, concentrata sull’obiettivo “no problems with neighbourhood”, ma una Turchia alle prese con mille tentazioni di tornare negli spazi ottomani ripercorrendo la storia all’indietro; non più un mondo arabo docilmente allineato all’Occidente, ma leaderships del Golfo disposte ad accomodare anche istanze islamiche oltranziste pur di attraversare indenni un travaglio sociale epocale; soprattutto, non più Stati Uniti impegnati nella stabilizzazione democratica del vicinato europeo, ma rivolti altrove e niente affatto inclini a farsi carico di responsabilità che considerano in capo all’Europa stessa. La parziale smobilitazione in corso della mega-base militare di Bondstill in Kossovo, istallata negli Anni Novanta, ne è vistosa conferma.

L’Ue riprende in mano le fila
Ora l’Unione sta riprendendo le fila e dal 6 febbraio discute di Nuova strategia per i Balcani occidentali, orizzonte 2025, sulla base di una proposta Junker, peraltro formulata nell’approssimarsi della scadenza del mandato della Commissione (e del Parlamento). Lo fa in un’ottica anzitutto securitaria, avendo a mente le massicce migrazioni del 2015 lungo la ‘rotta balcanica’, interrotte grazie all’intesa con la Turchia nel contesto del semi-collasso del sistema Schengen e della grave involuzione delle opinioni pubbliche, e registrando con preoccupazione il percorso di rientro dei foreign fighters – Kosovo e Bosnia ne hanno fornito il più gran numero in proporzione alla popolazione -, il rischio di radicamento islamista nella regione, il diffondersi del crimine organizzato transnazionale, in un contesto di debolezza delle economie e fragilità delle istituzioni locali.

Lo fa constatando l’attivismo di altri protagonisti internazionali che stanno traendo vantaggio dal calo di interesse dell’Unione. E forse anche pensando alla scoraggiante decurtazione che l’Ue sta subendo con la Brexit.

A ben guardare, la proposta Junker si limita a rilanciare le grandi linee della strategia degli Anni ‘90, definendo sì l’integrazione “irreversibile”, ma sempre parlando di “prospettiva” e puntando piuttosto sul consolidamento dei raccordi economico-culturali tra Repubbliche e con l’Unione stessa – infrastrutture, trasporti, telecomunicazioni, connessioni digitali, scambi giovanili –  che è stata l’idea di Angela Merkel nel promuovere il Processo di Berlino nel 2014, rafforzato dall’Italia al Vertice di Trieste dell’estate 2017.

Fermenti nella regione
Progetti e contatti certamente utili, ma non decisivi per il superamento dei contenziosi ereditati dal passato e tuttora vistosamente aperti. A partire dal nome della Macedonia e dalle relazioni tra Kosovo e Serbia. In particolare la Serbia, che con il Montenegro dovrebbe essere tra i primi della lista ad aderire, non potrà farlo se non arriverà all’intesa di normalizzazione “legally binding” che l’Unione sta chiedendo: scenario non facile, come dimostra da ultimo l’assassinio del leader serbo-kossovaro Oliver Ivanovic.

Il Presidente Vucic cerca di adoperarsi al meglio e ha intrapreso intensi contatti con gli omologhi di Albania, Kosovo, Bosnia, Turchia, oltre che Slovenia e Croazia, alla ricerca di punti di appoggio per uno sviluppo che potrebbe ripercuotersi nell’intera regione e che, nelle sue parole, “non può essere completamente a carico della sola parte serba”. Vucic non esclude nemmeno la rischiosa ipotesi di un referendum. I nazionalismi nei Balcani, e non solo a Belgrado e Pristina, non sono spenti, anzi appaiono rinvigoriti dal clima generale che investe la stessa Unione.

L’annuncio della strategia in parola appare quindi come una sorta di “riempitivo”, un segnale di attenzione all’indirizzo sia dei protagonisti balcanici sia dei concorrenti esterni. Un gesto in qualche modo dovuto. E del resto, nonostante l’impulso che la presidenza di turno bulgara del Consiglio dell’Ue intende dare al dossier con il Vertice del 12 maggio, occorre fare i conti con gli umori mediamente prevalenti negli Stati Membri rispetto all’idea di nuovi allargamenti.  E con i fondi da mettere in bilancio.

Per l’Italia, che non ha mai mancato di sottolineare la necessità di completare l’Unione integrando quello che non a caso è stato chiamato Sud-Est europeo, la proposta Junker è comunque una buona notizia. Occorrerà perseguire, assieme a quel gruppo di Paesi che per collocazione geografica, inclinazione storico-culturale, interesse economico, scorgono nel nuovo futuro allargamento molto più che una “prospettiva”.

Foto di copertina  © Predrag Milosavljevic/Xinhua via ZUMA Wire