IAI
Economia e lavoro

Tunisia: nuove proteste a sette anni dalla Rivoluzione

18 Gen 2018 - Luigi Cino - Luigi Cino

A sette anni dalla Rivoluzione, celebrati lo scorso 14 gennaio, in Tunisia si riaccendono le proteste di carattere economico e sociale contro il governo, in particolare contro la recente legge finanziaria 2018. Il 6 gennaio, in un villaggio vicino al confine algerino, un suicidio ha riaperto le contestazioni che hanno visto una vittima due giorni dopo. Il governo riconduce il decesso a complicazioni asmatiche, sebbene circolino in rete video che mostrano forme di violenza esercitata dalla polizia.

Le proteste, organizzate informalmente tramite reti di solidarietà, erano rivolte contro la grande coalizione al governo e contro le recenti scelte economiche di aumentare la tassazione indiretta. Si sono diffuse al resto del Paese, provocando scontri talvolta anche violenti tra manifestanti e polizia.

Una transizione difficile
Dopo l’indipendenza dichiarata nel 1956, la neonata Repubblica tunisina mosse i suoi primi passi sotto la dittatura del presidente Bourguiba, che governò fino al 1987, quando il primo ministro Ben Ali prese il suo posto tramite un colpo di stato ‘medico’, facendo dichiarare Bourguiba incapace di agire come presidente. Ben Ali continuò la sua politica di repressione e si ebbero diversi episodi di protesta già nel 1983-’84 (a causa dell’aumento del prezzo del pane), nel 1998 in favore dei diritti umani, nel 2005 e nel 2008 con uno sciopero dei minatori.

Ma è nel dicembre 2010 che, in seguito all’atto di protesta del giovane venditore ambulante Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco, le mobilitazioni in Tunisia assunsero una dimensione che portò non solo alla caduta del regime di Ben Ali (che scappò in Arabia Saudita), ma anche all’inizio della prima delle cosiddette Primavere arabe.

La Tunisia celebrò, dunque, le prime elezioni del Paese considerate democratiche dalla comunità internazionale nel 2011. La transizione fu tuttavia messa a repentaglio da alcuni episodi, come l’uccisione di due esponenti dell’opposizione (Mohamed Brahimi e Chokri Belaid) nel 2013. Nell’ottobre 2014, il nuovo Parlamento tunisino viene eletto nelle elezioni politiche generali, dove il partito laico Niida Tounes vince mentre gli islamisti di Ennahda arrivano secondi. Nel novembre dello stesso anno Beji Caid Essebsi (Niida Tounes) viene eletto presidente.

Motivazioni socio-economiche alla base delle mobilitazioni
Furono la mancanza di una diversificazione economica, l’alta disoccupazione e le forti disuguaglianze economiche a fare scattare le proteste del 2011. Sette anni dopo, sono le stesse cause socio-economiche a riaccendere gli animi tunisini. Infatti, buona parte della popolazione si è sentita tradita dalle promesse dei partiti al governo, ma soprattutto del perpetrarsi della corruzione e delle pratiche scorrette adottate a volte dalle istituzioni, nonché delle scelte in politica economica.

A livello macroeconomico, lo scontento si può ricondurre non solo alla mancanza di posti di lavoro, ma anche all’inflazione e ai salari stagnanti nel Paese. Anche la svalutazione del dinaro ha ridotto il potere di acquisto dei tunisini, i quali contestano le scelte del governo poiché considerate come dettate dalle istituzioni finanziarie internazionali. In effetti, sin dagli anni ’80 e ’90, molti Stati arabi hanno implementato molte riforme neo-liberiste con il supporto del Fondo monetario internazionale. Tali politiche hanno avuto l’effetto di distruggere il contratto implicito tra istituzioni e società, dove i cittadini rinunciavano a un’effettiva partecipazione politica in ritorno di generose sovvenzioni sociali (Mullin, 2015).

Con la riduzione dei posti di lavoro pubblici e del ruolo dello Stato come datore di lavoro, molti giovani tunisini si sono visti senza possibilità in un contesto dove il mercato del lavoro privato non offriva molte opportunità d’occupazione qualificate. Ma ciò è riconducibile anche a un sistema d’istruzione non adatto a fornire le qualifiche necessarie ad affrontare un mercato del lavoro sempre più competitivo. Le proteste hanno infatti visto i giovani in prima fila, i quali hanno utilizzato i social media come veicolo principale per l’organizzazione delle proteste.

Quale futuro per la giovane democrazia tunisina?
E’ difficile dire ad oggi se le proteste tunisine rappresentano il fallimento della transizione democratica tunisina o una fisiologica espressione della stessa democrazia. Ciò che è certo è che le istituzioni devono farsi carico delle richieste espresse dalla popolazione, se vogliono porre fine al malcontento e alle proteste. L’approccio securitario alla gestione dei disordini non è nell’interesse del governo, in quanto non farebbe altro che nutrire le proteste e farle dilagare nel Paese.

Al fine di garantire pace ed equità sociale, la Tunisia deve fronteggiare le sfide interne: disuguaglianze economiche e regionali, forte disoccupazione giovanile e inflazione devono essere combattute al fine di far uscire la Tunisia rafforzata da questi disordini. Non è certamente un compito facile per un Paese che, a differenza di altri Paesi arabi, non può contare su grandi risorse naturali e ha visto ridotte le sue entrate nel settore del turismo a seguito della situazione di sicurezza precaria.