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Le radici della protesta

Iran: nessuno tocchi Ahmad, linea d’ombra sui diritti umani

4 Gen 2018 - Michele Valente - Michele Valente

La sentenza della Corte suprema iraniana che condanna a morte Ahmadreza Djalali, ricercatore universitario, residente in Svezia e detenuto in Iran dall’aprile 2016, riporta l’attenzione sul rispetto dei diritti umani nella Repubblica islamica. Ogni anno, il regime degli ayatollah denuncia e colpisce con pesanti pene decine di scienziati e intellettuali, accusati d’essere spie reclutate dai servizi di intelligence stranieri per rivelare i piani strategici iraniani.

Riflesso anche delle tensioni geopolitiche mediorientali, le proteste in atto nel Paese testimoniano, in qualche misura, l’insofferenza verso le autorità: al grido di “No Gaza, No Libano, No Siria. La nostra vita per l’Iran”, le strade si affollano di persone che protestano contro la crisi economica e le spese militari sostenute nei conflitti regionali.

Le ragioni della protesta e la risposta del governo
Il governo censura siti web e social network, disponendo, nel piano di sicurezza nazionale, controlli più pervasivi su attivisti e difensori dei diritti umani che, denuncia Amnesty International, sono stretti “nella ragnatela della repressione”. La società civile invoca una riforma della giustizia e provvedimenti per ridurre le diseguaglianze socio-economiche: da un alto, il numero complessivo di esecuzioni capitali è in aumento dal 2015 (oltre 200 nel primo semestre del 2017), così come sono crescenti processi e condanne per falsi reati; dall’altro, l’effetto dei finanziamenti bellici agli alleati e il clientelismo della “ayatollah economy” accrescono disoccupazione giovanile (intorno al 40%) e malcontento popolare, alimentato dall’aumento dei prezzi di beni di prima necessità.

Nel 2013, l’elezione dell’attuale presidente Hassan Rohani, esponente moderato, distintosi per un approccio più pragmatico e riformatore rispetto all’ultra-conservatorismo del suo predecessore Maḥmūd Aḥmadinežād, fece prospettare maggiori aperture rispetto al tema dei diritti umani e civili. La ‘Carta dei diritti civili’, sollecitata da cittadini e Ong, è stata approvata nel dicembre 2016: un provvedimento importante che, tuttavia, resta confinato nel perimetro limitato delle leggi statali e della Costituzione, lontano dalle garanzie del Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966) dell’Onu.

L’accordo sul nucleare non ha prodotto benefici sociali
Campagne propagandistiche magnificano riforme economiche e welfare state, perno delle politiche riformiste, sebbene il rispetto delle condizioni del Pacg (l’accordo sulla non proliferazione nucleare, siglato nel 2015) non abbia prodotto benefici sociali, erosi dal potere delle Bonyad, asfittiche fondazioni parastatali. Oscurantismo e ripiegamento interno conseguono l’obiettivo di distogliere l’attenzione della comunità internazionale dal monitoraggio sulle violazioni dei diritti umani.

Vent’anni dopo la Dichiarazione Onu sui difensori dei diritti umani (1998), “la comunità internazionale, e soprattutto l’Unione europea, non devono rimanere in silenzio rispetto all’oltraggioso trattamento dei difensori dei diritti umani in Iran”, sottolinea Philip Luther, direttore di Amnesty International per la ricerca e l’advocacy su Medio Oriente e Africa del Nord.

Al riguardo, in occasione della Giornata mondiale dei diritti umani (10 dicembre), si è tenuta una conferenza presso il Parlamento europeo, dove associazioni ed esponenti politici sono intervenuti per sostenere le istanze democratiche avanzate negli anni dal popolo iraniano, condannando le azioni repressive del regime: Maryam Rajavi, presidente del Cnri (Consiglio nazionale della Resistenza iraniana), sottolinea l’urgenza di presentare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite un dossier che documenta le torture subite in Iran da 30.000 prigionieri politici dal 1988, invitando la comunità internazionale a perseguire gli autori dei crimini.

La vicenda di Ahmad, un paradigma iraniano, e altri
“Invece di blandire le autorità iraniane – prosegue Luther -, l’Unione europea dovrebbe chiedere in maniera ferma il rilascio immediato e incondizionato di tutte le persone in carcere per il loro pacifico impegno in favore dei diritti umani e la cessazione del ricorso al potere giudiziario per ridurle al silenzio”. Ahmad Djalali è l’ennesimo “corruttore sulla terra” condannato dalla giustizia iraniana, dopo un iter processuale iniquo. Respinta dal tribunale la scelta del suo avvocato difensore (come consentito dall’articolo 48 del codice di procedura penale iraniano), il ricercatore ha denunciato di aver subito pressioni psicologiche e maltrattamenti fisici affinché confessasse di essere una spia reclutata dal Mossad, l’agenzia d’intelligence israeliana, per fornire informazioni su basi militari e siti nucleari presenti in Iran. In isolamento nel carcere di Evin, dove sono rinchiusi altri presunti infiltrati, accusati dalle autorità iraniane di attentare alla sicurezza nazionale, Djalali continua a subire intimidazioni personali e minacce di morte nei confronti della sua famiglia.

Dalla nascita della Repubblica islamica dell’Iran (1979), le maglie della repressione contro dissidenti e attivisti non si sono mai allentate, in tutte le stagioni politiche: la presidenza di Mohammad Khātami (1997-2005) ha inaugurato un dialogo incentrato sulla diversità culturale, favorito da maggiori aperture circa il tema dei diritti nel dibattito pubblico, cui ha fatto da contraltare il carattere oppressivo e liberticida dell’esecutivo di Maḥmūd Aḥmadinežād (2005-2013).

Non è un caso che, tra le motivazioni dell’arresto di Nazanin Zaghari-Ratcliffe, project manager di Thomson Reuters Foundation, vi sia “il suo coinvolgimento nelle rivolte post-elettorali che hanno travolto Teheran e altre città nel 2009”, come riportato dall’emittente iraniana Press Tv. La contestata vittoria elettorale di Aḥmadinežād, per l’opposizione viziata da brogli, portò alla cosiddetta ‘rivoluzione verde’: la protesta coinvolse molti giovani che sfruttarono le potenzialità di Internet e dei social network per coordinare le manifestazioni di dissenso contro il governo e informare i media internazionali.

Il Guardian ha ricostruito gli sviluppi della vicenda di Nazanin: detenuta in Iran dall’aprile 2016, la cittadina britannico-iraniana è stata condannata a cinque anni di carcere con l’accusa di “cospirazione contro il regime iraniano”, mentre, in realtà, stava svolgendo attività di training nel campo del giornalismo. Come nel caso Djalali, riferisce Press Tv, Zaghari-Ratcliffe “è responsabile di aver condotto attività criminali sotto la direzione di media e servizi segreti di governi stranieri”.

La petizione promossa dal marito Richard Ratcliffe nel maggio dello stesso anno ha raggiunto un milione di firme, spingendo l’Onu a portare all’attenzione dei media la sua storia e a condannare le violazioni dei diritti umani perpetrate in Iran. Nelle scorse settimane, l’incontro tra Mohammad Zarif e Boris Johnson, ministri degli esteri di Iran e Regno Unito, ha lasciato spiragli circa la scarcerazione di Zaghari-Ratcliffe. L’inerzia della comunità internazionale, di fronte alle posizioni iraniane sul rispetto dei diritti umani, non può più essere tollerata: le storie di Ahmad e Nazanin devono rompere il muro dell’indifferenza.