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Diritti e sharia

Indonesia: Islam e transgender tra pluralismo e radicalizzazione

10 Gen 2018 - Riccardo Pareggiani - Riccardo Pareggiani

In Indonesia, il tasso di radicalismo islamico è percettibilmente aumentato negli ultimi anni. Nel febbraio 2014, una legge nazionale aveva definitivamente tracciato uno spartiacque con il passato pluralista nel Paese del sud-est asiatico, concedendo l’introduzione della sharia sull’isola di Sumatra, ed imponendo a musulmani e non il rispetto della “Legge di Dio.

Gli attacchi suicidi operati da gruppi terroristi islamisti ed i numerosi arresti compiuti nell’ambito di operazioni di polizia ai danni degli appartenenti alla comunità omosessuale (l’ultimo dei quali ha condotto davanti alla giustizia, in un solo giorno, ben 140 persone) hanno sconvolto la capitale Giacarta negli ultimi mesi. L’omosessualità non è illegale in Indonesia, ma considerata la crescente influenza dei gruppi radicali nel governo, spesso i gay vengono perseguitati e condannati per reati legati a pornografia e blasfemia. In molti casi le pene vengono applicate anche con sanzioni corporali, come la fustigazione pubblica.

Secondo Human Rights Watch, fino al 2015 la comunità Lesbian-gay-bisexual-trans (Lgbt) ha vissuto in un’apparente tolleranza ma, nei primi mesi del 2016, l’intensificarsi della propaganda filo-islamista del gruppo “Front Jihad Islam” attivo nelle zone più conservatrici di Java e Sumatra, ha portato ad un rapido deterioramento dei diritti civili a cui è seguita una vera persecuzione di carattere poliziesco.

All’inizio del 2016 il ministro della Difesa Ryamizard Ryacudu aveva descritto il movimento Lgbt come “una forma di guerra moderna, funzionale a minare le basi dell’Indonesia”. Nello stesso anno il vicepresidente indonesiano Jusuf Kalla aveva fatto pressioni per sospendere le erogazioni del fondo implementato dal programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp) focalizzato sulla cessazione della discriminazione e delle violenze verso la comunità Lgbt.

La battaglia per il “terzo genere”
I waria – così definiti i membri della comunità transgender, con una parola che mette insieme i termini indonesiani wanita (donna) e pria (uomo) -, cercano da un decennio almeno il riconoscimento formale dei loro diritti come “terzo genere”, nonché la parità a livello religioso in un ambiente sempre più conflittuale.

Al sud, sull’isola di Lombok, la situazione non sembra così tesa. L’atmosfera calma è forse data dal fatto che questa zona è più difficile da raggiungere per la propaganda dei gruppi islamico-radicali. Juli Susanto, attivista membro di Inset, un’organizzazione non governativa che opera a Lombok per sensibilizzare sui diritti Lgbt, non è però di questo avviso: “Il primo problema è che si fatica a trovare le persone che hanno bisogno di aiuto perché queste hanno timore a rendere pubblico il loro status; e poi bisogna far in modo che abbiano accesso a programmi specifici di prevenzione ed educazione, tuttora inesistenti”.

Per far fronte alla mancanza di soluzioni governative, l’ong di Juli Susanto gestisce programmi per l’educazione sessuale fornendo assistenza sanitaria gratuita per evitare la diffusione dell’Hiv, “problema estremamente serio e dilagante.

L’unica madrasa per waria
Per conoscere meglio questa realtà occorre dirigersi verso Java. Al centro di essa si trova Yogyakarta, città bohémienne ed universitaria, la “Berlino del sud-est asiatico”, fiore all’occhiello di un’intensa attività culturale alternativa che guarda ai modelli di vita occidentali.

Qui incontro Shinta Ratri, donna transgender di 54 anni, leader dell’unica scuola coranica al mondo gestita da membri della comunità Lgbt, la Pondok Pesantren Waria al-Fatah. La madrasa venne da lei fondata nella sua vecchia casa per creare un luogo dove i waria avessero la possibilità di pregare insieme senza dover rimanere isolate nelle loro case, superando quella “frontiera sociale” del binarismo di genere che impone a uomini e donne di pregare divisi nelle moschee. Come racconta Shinta, “la scuola è stata, per questo motivo, obiettivo di furiosi attacchi armati a scopo intimidatorio, operati dalle fazioni più intransigenti del Front Pembela Islam e del Front Jihad Islam” i movimenti di matrice islamista radicale che operano nell’isola.

La scuola si trova nascosta in un dedalo di vicoli: per raggiungerla chiedo in giro e tutti sanno darmi indicazioni certe, senza dimostrare nessun segno di avversione per la presenza di una tale associazione. Vengo accolto da Shinta, elegantemente vestita con il tradizionale Al-Amira, la quale mi racconta il suo passato e la storia della Waria al-Fatah, aperta nel 2008: “So di essere una donna da quando ho 10 anni, quello che mi interessava era stare con le ragazze, vestire come loro, sentire i loro bisogni – racconta-. Non sono transgender per mia sola e semplice scelta, ma per puro destino”.

La comunità Lgbt nell’arcipelago
Shinta racconta dei suoi cari: “Nella mia famiglia siamo otto fratelli, ma non ha mai avuto nessun problema a far riconoscere loro riconoscere la mia decisione, la mia condizione è completamente accettata e per questo mi sento molto fortunata; non per tutti i waria è cosi. I transgender non sono generalmente oggetto di mercificazione e schiavismo sessuale, ma vivono comunque in una condizione di estrema marginalità, analfabetismo ed esclusione”.

La comunità transgender in Indonesia è abbastanza numerosa, anche se dati precisi non se ne conoscono dato che un censimento non è mai stato compiuto. Secondo Shinta, la quale accoglie nella Waria al-Fatah persone da tutte gli angoli del Paese, solo nella città di Yogyakarta ci sono all’incirca 372 transgender, mentre tutta l’isola di Java questo numero supererebbe il milione, fino ad arrivare a una cifra di due milioni nell’intera Indonesia, dove invece la comunità Lgbqti globalmente intesa si attesterebbe sui dieci milioni di membri.

L’obiettivo di Shinta è quello di “dimostrare che l’Islam accoglie anche i transessuali e le persone facenti parte della comunità Lgbt ed è una religione per tutta l’umanità”.

Nella foto di copertina, Shinta Ratri nella madrasa di Yogyakarta © Riccardo Pareggiani via ZUMA Wire