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Sogno e malcontento

Cina: tra sfratti e abusi, il lato oscuro di Pechino

17 Gen 2018 - Serena Console - Serena Console

Nella Pechino del socialismo con caratteristiche cinesi, gli sfratti della popolazione di fascia più bassa e gli abusi sui minori negli asili nido hanno mostrato il rumoroso lato della classe medio-bassa della società, quelle che sono alla base del Sogno cinese, il zhongguo meng. Il Sogno cinese è diverso dall’American Dream del dopoguerra: non è un sogno individuale, finalizzato alla realizzazione del proprio successo, ma si traduce in uno sforzo collettivo per portare al successo l’antica Terra di Mezzo.

È difficile avere una stima precisa dei lavoratori migranti che hanno lasciato i propri luoghi di origine (e le prestazioni sociali essenziali a loro lì garantite) per andare nelle città e nelle metropoli a svolgere mansioni manuali a basso valore aggiunto. Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2015 si è registrato un movimento migratorio interno alla Cina pari a 247 milioni di persone.

La fredda definizione burocratica di diduan renkou, “popolazione di fascia più bassa”, è stata di recente sottoposta alla censura governativa, così da limitarne la diffusione nelle conversazioni e nei commenti sui social network cinesi.
Nonostante l’impegno della macchina censoria, si è diffusa a macchia d’olio la notizia legata agli sgomberi e alle demolizioni di edifici in cui risiedono migliaia di lavoratori provenienti dalla Cina rurale, i mingong.

Il controllo sugli stabili della capitale
La municipalità di Pechino ha lanciato una campagna durata 40 giorni per controllare le condizioni di sicurezza degli stabili della città, con particolare attenzione a magazzini, mercati all’ingrosso e altre costruzioni nelle periferie dov’è raccolta la gran parte dei mingong.
Il pretesto per dare il via all’azione di Pechino è stato un incendio scoppiato lo scorso 18 novembre nel villaggio di Xinjiancun, dove un palazzo che ospitava principalmente mingong e le loro famiglie è andato in fiamme uccidendo 19 persone, tra cui 8 bambini.

Secondo le autorità locali, circa 400 persone vivevano in condizioni anguste nella struttura a due piani, che serviva anche da officina e magazzino per i venditori locali.

Quella che è stata definita dalle autorità come una misura per la messa in sicurezza della popolazione è però una vera campagna che mira a demolire le abitazioni in cui risiedono i migranti interni al Paese del Dragone. Il reale obiettivo del Partito comunista cinese è, del resto, la riorganizzazione dell’assetto urbanistico della capitale e il contenimento del numero degli abitanti. Secondo il 13esimo piano quinquennale cinese (2016-2020), la strategia per lo sviluppo economico e sociale del Paese, la popolazione residente nella capitale non dovrà infatti superare i 23 milioni entro il 2020, dai 21,7 milioni attuali.

Così, con un preavviso minimo – di 3 giorni o persino di 15 minuti – gli inquilini, scortati dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa, sono costretti a raccogliere tutti i loro averi e lasciare le loro abitazioni, senza sapere dove andare. Il processo di evacuazione e di sfratti nella capitale non è nuovo alle cronache. Già prima delle Olimpiadi del 2008, numerose abitazioni che sorgevano negli anelli centrali della capitale sono state smantellate per lasciare spazio a costruzioni più moderne, finalizzate a ospitare anche le orde di turisti che, di lì a poco, avrebbero fatto registrare picchi nei guadagni dell’azienda del turismo.

I mingong – di fatto percepiti come causa di sovrappopolazione e aumento dell’inquinamento, del traffico e del consumo delle risorse – ora si trovano quindi in un limbo: abbandonare la grande città in cui ottenere una retribuzione superiore a quella delle aree rurali, oppure insediarsi nelle zone periferiche della grande città a vantaggio delle agenzie immobiliari e dei locatori.

Le proteste della società civile e le ripercussioni sulle aziende
Le misure della municipalità di Pechino non hanno ricevuto il silenzio solitamente osservato dai media e dagli intellettuali. Pochi giorni dopo i primi sgomberi, sono arrivate le parole di denuncia della classe media, testimonianza di un sentimento di disapprovazione e disaffezione nei confronti del Partito, come dimostra l’iniziativa di un centinaio tra intellettuali e professori universitari, firmatari di una lettera in cui si accusa l’amministrazione della capitale di aver messo in atto una grave violazione dei diritti umani. In particolare è Cai Qi, sindaco di Pechino e fedelissimo di Xi Jinping, il bersaglio delle critiche mosse dagli intellettuali.

Ma anche il Global Times, spin-off in lingua inglese del “Quotidiano del Popolo”, ha preso una posizione contro i metodi troppo duri portati avanti dall’amministrazione locale, criticando la mancanza di un’alternativa abitativa da offrire alle famiglie per ripararsi dalle rigide temperature invernali.
Grazie alla vasta eco del caso sui social media, molte organizzazioni non governative si sono attivate per mettere a disposizione degli sfrattati abitazioni temporanee e, ad alcuni di loro, è stato anche garantito un biglietto per tornare nelle loro zone di provenienza.
L’amministrazione locale ha tuttavia omesso di considerare il futuro di tutti quei lavori svolti dai mingong, che nelle grandi città cinesi sono occupati principalmente nel settore dell’edilizia, del tessile e dell’e-commerce.
L’espulsione di migliaia di migranti cinesi priva così le aziende di un’importante forza lavoro, come i corrieri espressi, creando conseguenze negative per il bilancio dei colossi degli acquisti online, del calibro di Alibaba e Baidu.

Lo scandalo asili nido
La riorganizzazione della città non è la sola preoccupazione dell’amministrazione di Pechino. Dopo la denuncia di  alcuni genitori – e la diffusione della notizia pure stavolta sui social network -, le proteste si sono abbattute anche su un asilo nido del distretto di Chaoyang, dove dei bambini sarebbero stati molestati, drogati e abusati sessualmente.

La scuola per l’infanzia è gestita dalla Red Yellow Blue Education – società nata in Cina alla fine degli anni Novanta e quotata a Wall Street -, che si definisce il più grande fornitore di servizi educativi della prima infanzia nel Paese e gestisce oltre quattromila dipendenti che operano in circa 1000 asili nido in 307 città cinesi.

Le autorità governative avevano da subito attivato la macchina censoria, indicando ai media nazionali di non pubblicare alcuna notizia sullo scandalo nell’asilo, mentre venivano rimossi dall’incarico due insegnanti e il preside si diceva pronto a collaborare, pur negando ogni accusa.  Malgrado gli sforzi della censura, però il flusso dei commenti su Weibo, il Twitter cinese, non si è fermato. Gli utenti hanno denunciato come questo caso di maltrattamenti non sia il primo in Cina e che la ripetizione di questi episodi è dovuta certamente alla mancanza di un personale scolastico altamente qualificato.

L’agenzia di stampa Xinhua, riprendendo uno studio condotto dalla Girls’ Protection Foundation, ha riportato che tra il 2013 e il 2015 sono stati denunciati 968 abusi sessuali contro i minori, che coinvolgerebbe 1790 bambini. Molti altri abusi non sarebbero comunque stati resi noti.

Le molestie contro i bambini si sviluppano di fronte l’indifferenza delle autorità scolastiche, che non denunciano gli episodi alla polizia. Inoltre, molte vittime sono proprio i bambini rimasti nelle zone rurali (più di 61 milioni), mentre i genitori riempiono le file dei diduan renkou nelle grandi città.

La frustrazione pubblica, se non gestita nel modo adeguato, può rappresentare una fonte di instabilità per il potere politico del Partito. E, a pochi mesi di distanza dalla trionfante nomina di Xi Jinping per il secondo mandato alla guida del Paese, il presidente deve fare i conti con incidenti che esprimono il malcontento della classe media-bassa, quella che ogni giorno lavora duramente per realizzare il condiviso Sogno cinese.

Foto di copertina © SIPA Asia via ZUMA Wire