Cina: evoluzione d’una galassia, tra opportunità e criticità
A fine anno 2017, la pubblicistica anglofona – il settimanale inglese The Economist nel mese di ottobre e quello americano Time nel mese di novembre – ha enfatizzato i risultati più recenti raggiunti dalla Cina. Il primo evidenziando la straordinaria concentrazione di potere nelle mani del presidente Xi Jinping, il secondo titolando in caratteri (anche) cinesi la propria copertina.
Stiamo assistendo dunque davvero ad una transizione dal Washington consensus al Pechino consensus, al di là dei più recenti proclami cartacei d’oltremare e d’oltremanica? Da una osservazione sommaria, appaiono esserci in realtà sia opportunità che criticità per una grand strategy cinese vincente nel periodo 2018-2049, anno in cui si celebrerà il centenary goal della fondazione della Repubblica popolare.
Tra cantieri navali e fabbriche di sogni
Le opportunità sono ampiamente note. Scambi commerciali, flussi di capitali, connettività, anche attraverso la cosiddetta diplomazia delle infrastrutture. Nel 2012 lo storico scozzese Nial Ferguson affermava tra lo stupefatto e il sorpreso: Quando ho visitato il più grande cantiere navale di Shanghai, nel 2010, sono rimasto sbalordito dalle gigantesche dimensioni delle navi in cantiere. Lo spettacolo che avevo davanti agli occhi faceva impallidire i docks di Glasgow dei miei ricordi di infanzia[1].
Già nel 2014 però, in modo forse più disincantato e cinico, il giornalista Federico Rampini – problematizzando la questione – rifletteva sul fatto che “affinché la Cina diventi potenza (gramscianamente ed autenticamente) egemone, da fabbrica manifatturiera del pianeta deve trasformarsi in una fabbrica di idee e di sogni”. Detto in altri termini: è questione (anche) di soft power, bellezza. E Hollywood per il momento risiede ancora a Los Angeles, nonostante gli incendi e le note e recenti turbative emerse nel mondo cinematografico statunitense.
Lanterne rosse e ombre cinesi. Alcuni possibili shock strategici
Venendo all’oggi, se è lecito affermare che il Belt and Road Forum for International Cooperation tenutosi a Pechino il 14 e 15 maggio 2017 è stato un grande successo diplomatico cinese, possibili shock strategici e cigni neri sono pur sempre potenzialmente in agguato.
Una lettura e una descrizione fortemente caratterizzata del progetto Obor/Bri (One Belt One Road, poi rinominata Belt and Road Initiative), la Nuova Via della Seta, l’ha ad esempio recentemente espressa Charles William Parton, già diplomatico britannico in Cina, dalle pagine del Financial Times. Secondo Parton il progetto sarebbe in estrema sintesi “a domestic policy with geostrategic consequences rather than a foreign policy”.
Uno degli scopi fondanti del progetto sarebbe – in quest’ottica – quello di favorire la crescita delle regioni interne cinesi, che non godono dello stesso sviluppo di altre aree del Paese. Diverse parti della Cina muovono e crescono in modo assai diverso tra di loro (si pensi alle difficoltà economiche affrontate dal Nord-Est cinese negli ultimi anni) e armonizzare la crescita delle diverse aree non sarà operazione agevole nel breve periodo.
Venendo ad un altro possibile shock strategico interno, è un fatto che su territorio cinese le sfide ambientali non sono più differibili, anche per i costi sociali e sanitari sul sistema cinese. Una battuta triste, ma in parte vera, recita che in Cina il cielo è stato azzurro solo per le Olimpiadi del 2008. Altri ancora evidenziano l’ineludibile e relativamente precoce invecchiamento della popolazione cinese, considerando una massa critica di oltre quattrocento milioni di pensionati nel Paese da qui a due/tre decadi, laddove la piramide demografica Usa appare ancora ben bilanciata nel medio periodo.
Proprio da una prospettiva a stelle e strisce, vi è chi – come lo studioso Graham T. Allison – ha ripreso l’antico concetto della trappola di Tucidide, già attiva al tempo di Sparta e Atene, per mettere in guardia sui rischi indesiderati di dinamiche involutive e nuove conflittualità tra Usa e Cina. E chi, come l’ex ambasciatore Zalmay Khalilzad, ha utilizzato l’espressione congagement (fusione dei termini containment ed engagement) per enfatizzare i nuovi equilibrismi politici da ricercare oggi tra le due potenze.
La difficoltà di comprendere a fondo il Paese e le linee di azione (e di pensiero)
Tornando sul Vecchio Continente, il sinologo francese Francois Jullien, docente all’Università Paris VII- Denis Diderot e profondo conoscitore del territorio “antropico” cinese, afferma come non sia certo una operazione intellettualmente agevole staccarsi mentalmente dall’Europa “dagli antichi parapetti”, leggendo ad esempio il divenire degli eventi come propensione naturale delle cose (ottica cinese) e non in chiave dialettica, in una logica frontale di tesi antitesi e sintesi hegeliana (ottica occidentale).
In particolare Jullien, comparando il pensiero occidentale e quello cinese in 20 contrasti, vede un caposaldo di scarto concettuale nella differenza tra pensare le cose in termini di causalità, proprio della tradizione europea, e pensare le cose in termini di propensione e implicazione interna, in una logica continua e correlata, indefinitamente intricata, dei processi.
A un livello puramente linguistico (e dunque pre-filosofico), il docente di lingua e cultura cinese Daniele Brigadoi Cologna ha inoltre osservato – prendendo ad esempio il caso italiano – come la maggior parte dei laureati che hanno frequentato un corso triennale di lingua cinese all’università in Italia dispone di un livello certificato di competenza nella lingua cinese molto basso. Solo un’esigua minoranza (meno del 10%) ottiene una certificazione di livello comparabile al B1 o al B2.
Pur considerando queste limitazioni, da una prospettiva nazionale Confindustria ha creato recentemente una task force interna dedicata alla Bri, suggerendo anche un approccio top down con il più alto coinvolgimento istituzionale (Presidenza del Consiglio, Ministero degli Esteri, Ministero dello Sviluppo economico e Istituto per il commercio estero) per canalizzare l’interesse del Sistema Paese. Auspicando una strategia condivisa pubblico-privata al fine di considerare sinergicamente i progetti di Pechino.
Conclusioni: Obor/Bri e le perle da gestire
Al di là della lettura e della rappresentazione che si vuole adottare sul progetto Obor/Bri e sulle difficoltà di comprensione dell’universo-pensiero cinese, per certo il Mediterraneo è considerato da Pechino un punto di snodo qualificato della Nuova Via della Seta marittima, attraendo nuove navi cargo cinesi provenienti da Suez, che con il raddoppio del 2015 è ora idoneo anche al traffico del cosiddetto neo-gigantismo navale.
In questo contesto, come sottolineato tra gli altri da Shaun Breslin dell’Università di Warwick, il limite forse più insidioso per le progettualità cinesi potrebbe essere quello di “tenere a freno pretese (e narrative, nda) eccessive quando si prospetta un futuro sino-centrico, che rischiano di allontanare potenziali alleati”.
Con la difesa delle rotte commerciali, i reef armati in Asia e la prima base fuori dalla Cina a Gibuti, progetto economico e progetto militare tendono a fondersi. Fondamentale sarà dunque una chiara e ben bilanciata modalità di interlocuzione con i nuovi (possibili) adepti del dragone.
Foto di copertina © Li Yibo/Xinhua via ZUMA Wire