Nato/Ue: se la difesa europea aiuta la cooperazione
Potranno mai collaborare in modo sinergico nel campo della sicurezza e della difesa la Nato e l’Unione europea? A 18 anni dall’incontro di Saint-Malo, che lanciò la politica europea di sicurezza e difesa, è lecito dubitarne.
Dalla cooperazione nelle operazioni allo stallo europeo
Negli anni 2000 episodi concreti hanno dimostrato nel concreto che un simile sviluppo è possibile, con l’applicazione degli accordi Berlin Plus, con cui la Nato mette a disposizione dell’Unione le sue strutture operative per il compimento di specifiche operazioni, come avvenne nei Balcani occidentali, in Bosnia Herzegovina e in Macedonia.
Ma da quegli anni è come se i meccanismi si fossero arrugginiti, vuoi per il macigno della questione turca, che fa mancare il proprio consenso a qualsiasi relazione organica tra le due organizzazioni, vuoi per la riluttanza di alcuni Paesi, come la Francia, ad accettare di dipendere dalla Nato per un’efficace azione militare, di cui evidentemente non si vuole perdere la primogenitura. Caso lampante fu la questione libica nel 2011, che Parigi voleva condurre da protagonista in una della tante versioni di coalition of the willing, senza averne le necessarie capacità, e che con grande fatica diplomatica si riuscì a ricondurre sotto un più efficiente cappello Nato.
A questa situazione di carattere politico si deve aggiungere il degrado delle capacità militari dei membri dell’Unione europea, le cui forze armate, dal 1999 ad oggi, si sono ridotte di oltre 200.000 unità e la cui situazione di efficienza e di prontezza è ben lungi dall’essere soddisfacente.
In questo quadro, la stessa idea di un’Europa della difesa appariva evanescente e di conseguenza sembrava poco realistico impostare una strutturale cooperazione con una Nato che, seppur con qualche affanno, comunque manteneva una solida struttura di pianificazione e comando, potendo sempre contare sul Grande Fratello d’Oltreoceano.
Il recente rilancio dell’Europa della difesa
Con l’assunzione della carica di Alto Rappresentante e vice-presidente Ue da parte di Federica Mogherini, qualcosa è cambiato, dapprima in modo sommesso, ma poi con crescente spirito di iniziativa, fino al parto, nelle ore immediatamente seguenti all’infausto referendum sulla Brexit, della pubblicazione della Strategia Globale per la politica estera e di sicurezza dell’Unione europea. Alla Strategia sono seguiti due fatti politicamente rilevanti: la decisione di creare un fondo per finanziare programmi di ricerca e sviluppo nel campo della difesa (European Defense Fund – Edf) e il recente avvio della Cooperazione strutturata permanente nel settore della difesa, la PESCO, prevista dal Trattato di Lisbona, ma accuratamente lasciata in un cassetto per quasi un decennio.
Si tratta di due fatti importanti, che potranno avere conseguenze anche sullo sviluppo di una reale cooperazione tra Nato e Unione Europea, in quanto si tratta di due elementi necessari, anche se da soli non sufficienti, per la concretizzazione di capacità militari di livello adeguato a dare un senso al rapporto tra le due istituzioni. Fatto che si sono accompagnati alla dichiarazione congiunta Nato-Ue di Varsavia, che ha dato nuovo impulso politico alla cooperazione tra i due attori – cooperazione della cui sorte tratterà un evento organizzato il 6 dicembre dalla delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare Nato e dallo IAI.
E’ pertanto doveroso, a questo punto, fare qualche considerazione su Pesco e Edf, al fine di valutarne la reale portata e gli effetti che si possono attendere anche in relazione alla Nato.
Le implicazioni di Pesco ed Edf per la cooperazione Nato-Ue
Le modalità con cui si è dato il via alla Pesco, a mio parere, non possono indurre a un grande ottimismo: certamente la sottoscrizione di questo impegno ha un grande significato politico, ma gli estensori del Trattato avevano in mente un accordo tra pochi Paesi able and willing, che soddisfacessero a precisi parametri definiti nel Protocollo 10 annesso al Trattato; a questo nucleo, una volta consolidato, si sarebbero potuti aggregare altri Paesi, via via che si fossero verificate le condizioni necessarie.
Un raggruppamento a 23, e presto a 24, ripropone sostanzialmente l’attuale condizione di dubbia efficienza, atteso che all’interno della Pesco le decisioni devono essere prese all’unanimità. Ma non facciamoci prendere dal pessimismo e guardiamo con speranza a come verranno concretizzati gli oltre 50 programmi di cooperazione già concordati e che saranno monitorati dall’Eda (Agenzia dove purtroppo da tempo la presenza italiana è carente nell’area di vertice).
Diverse sono le prospettive per l’Edf, che al momento è sì di entità modesta, ma che ha il potenziale di agire da catalizzatore per l’assolutamente indispensabile consolidamento del quadro dell’industria europea della difesa. Credo infatti che sia indubitabile che uno dei più potenti ostacoli a una politica comune di sicurezza e difesa sia rappresentato dalla gelosa protezione dei cosiddetti campioni nazionali, per comprensibili motivi, inclusi quelli occupazionali e sociali. Una delle conseguenze è la frammentazione del mercato della difesa, da cui la proliferazione dei modelli per ogni tipologia di sistema d’arma, con gigantesche diseconomie di scala.
Ebbene, lo European Defense Fund ha tra le sue finalità quella di stimolare la cooperazione, grazie alla partecipazione a programmi multinazionali, da cui possono derivare alleanze e possibili integrazioni societarie. Si potrebbe in definitiva arrivare a una ‘denazionalizzazione’ delle industrie, con straordinari benefici in tema di interoperabilità e standardizzazione e, a cascata, di efficacia operativa.
Dal combinato disposto del successo di Pesco ed Edf si verificherebbe così una delle condizioni essenziali per una effettiva cooperazione tra l’Unione e l’alleanza Atlantica, cioè la creazione di un reale e capace pilastro europeo per la difesa comune. Ci vorrà tempo: la strada è ancora lunga e potrebbe rivelarsi accidentata, ma la direzione è quella giusta e non bisogna esitare.