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Crisi umanitaria

Myanmar: Papa Francesco si muove fra Rohingya e Cina

5 Dic 2017 - Stefano Pelaggi - Stefano Pelaggi

Il recente viaggio apostolico di Papa Francesco in Myanmar – programmato sin dalle elezioni birmane del novembre 2015 che hanno segnato il percorso di apertura democratica del Paese con la vittoria della National League for Democracy (Nld) – è avvenuto in un momento critico.

La tragedia dei Rohingya, che l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha definito un “esempio da manuale di pulizia etnica”, ha determinato l’esodo di oltre 600 mila persone nel vicino Bangladesh, migliaia di morti e dispersi, trecento villaggi completamente distrutti dalle forze armate birmane negli ultimi tre mesi e numerose accuse di atrocità e violenza perpetrate dai soldati governativi sulla popolazione civile.

Il Papa non ha voluto sconvolgere le relazioni diplomatiche tra il Vaticano e Naypyidaw – tra l’altro appena stabilite – e ha evitato ogni diretto riferimento pubblico ai Rohingya mentre si trovava nel Paese. Ma lo spettro della crisi nel Rakhine ha aleggiato per tutta la visita pontificia e i richiami indiretti ai Rohingya non sono mancati durante i suoi discorsi pubblici in Myanmar. Da Dacca, poi, Papa Francesco ha elogiato il Bangladesh per i suoi sforzi umanitari nella risoluzione della crisi e ha sottolineato l’urgenza di evitare una catastrofe umanitaria, mentre nei colloqui con i giornalisti ha esplicitamente dichiarato di aver ripetutamente sottolineato la gravità della situazione nel Rakhine durante i suoi incontri istituzionali in Myanmar.

Democratizzazione e unità nazionale
La risoluzione della crisi umanitaria dei Rohingya sembra restare lontana, la situazione è ormai fuori controllo da molti anni e un intervento esterno avrebbe probabilmente avuto una reale efficacia solo se programmato nel 2012, in concomitanza con la recrudescenza nei confronti della minoranza musulmana. Gli occhi dell’Occidente in quel momento erano tutti puntati sulla possibilità di avviare un processo democratico nel paese, grazie al supporto che la popolazione stava dimostrando nei confronti di Aung San Suu Kyi. Qualsiasi intervento esterno avrebbe potuto alterare lo straordinario percorso che ha sancito la fine della dittatura militare dopo più di sessant’anni.

L’ordinamento istituzionale birmano è ancora profondamente vincolato alla giunta militare, che ha conservato una rappresentanza parlamentare e ben tre ministeri cruciali come Interni, Difesa e Affari di confine. La missione principale che Aung San Suu Kyi si è prefissata consiste nel graduale processo di democratizzazione del Paese, ma soprattutto nel mantenimento dell’unita nazionale durante questo delicato percorso. La stragrande maggioranza della popolazione vede i Rohingya come una minaccia reale, una dinamica indotta da decenni di propaganda del regime militare ma anche da un forte legame tra la religione buddista e l’identità nazionale birmana. Al di là delle oggettive difficoltà, dovute alla necessità di interazioni con i militari, il principale ostacolo a un approccio diverso nei confronti della minoranza musulmana è proprio legata alla forte volontà di Aung San Suu Kyi di evitare qualsiasi dinamica che possa contribuire alla disgregazione del Paese.

La crisi dei Rohingya ha decretato un netto cambio di percezione nei confronti degli sforzi birmani verso la transizione democratica. La stessa immagine pubblica di Aung San Suu Kyi ha subito un drastico cambio di prospettiva in Occidente, dalla eroica leader della ricostruzione democratica alla complice dei militari in uno dei peggiori genocidi. La beatificazione e la successiva demonizzazione di una personalità politica in un lasso di tempo così breve è un fatto inedita per la storia recente.

Legami sempre più stretti con Pechino
L’elezione di Donald Trump – con il conseguente temporaneo blocco delle politiche di sviluppo statunitensi nella regione – e l’insistenza europea nei confronti della centralità della questione Rohingya nelle relazioni con Naypyidaw hanno determinato un avvicinamento sempre maggiore tra il Myanmar e la Cina. Si tratta di un processo ben noto ed evidente, il primo viaggio all’estero di Aung San Suu Kyi ancora prima di iniziare la sua campagna elettorale fu proprio in Cina e la de facto leader birmana non ha mai nascosto la centralità di Pechino per lo sviluppo del suo Paese.

La Cina, fedele alla sua linea di non interferenza negli affari interni degli altri Paesi, aveva sino ad ora sempre bloccato ogni tentativo di risoluzione delle Nazioni Unite sulla crisi in Rakhine. Ma recentemente, durante un viaggio in Bangladesh e Myanmar, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha annunciato un piano per risolvere la crisi dei rifugiati. Il percorso indicato da Pechino prevede un’interruzione delle operazioni militari birmane, il rimpatrio dei rifugiati dal Bangladesh e una serie di importanti incentivi economici nel Rakhine.

L’accordo per il rimpatrio dei rifugiati
Come diretta conseguenza, pochi giorni dopo Myanmar e Bangladesh hanno dichiarato di aver finalmente trovato un accordo per le modalità di rimpatrio dei Rohingya; si tratta tuttavia di un documento che non può garantire la risoluzione della crisi umanitaria in corso. Il compromesso si basa sull’accordo del 1992 che accettava come documenti validi, oltre alle carte d’identità nazionali, le cosiddette white card, ma anche le ricevute governative per tutti i documenti sopracitati che siano stati ritirati o confiscati dalle forze governative. I dubbi sulla validità e l’efficacia dell’intesa sono molti e solo nelle prossime settimane si potranno comprendere le reali possibilità dello stesso.

Gli incentivi economici cinesi rappresentano la vera e propria novità dell’accordo. Finora le proposte degli organismi internazionali avevano previsto degli aiuti strettamente legati all’emergenza umanitaria. Il Rakhine è la regione meno sviluppata del Paese, quasi il cinquanta per cento della popolazione vive sotto la soglia della povertà e rappresenta un canale di comunicazione importante per la Cina: la Nuova Via della Seta punta proprio sulla regione birmana per stabilire connessioni con lo Yunnan. Nei prossimi anni è prevista la costruzione in Rakhine di un porto, di un gasdotto e di un oleodotto – tutti nei dintorni di Kyaukpyu -, nell’ambito del grande progetto infrastrutturale cinese Belt and Road Initiative, mentre sempre da Pechino si promettono almeno 100 mila nuovi posti di lavoro per la popolazione locale.

La visita del generale Min Aung Hlaing in Cina nel mese di novembre e il recente viaggio della stessa Aung San Suu Kyi a inizio dicembre a Pechino confermano l’intensità delle relazioni sino-birmane, mentre Washington ha di fatto interrotto ogni comunicazione con le Forze Armate del paese e dalle organizzazioni internazionali c’è la forte tentazioni di chiedere nuove sanzioni economiche.

Tutte misure che si sono dimostrate ampiamente inefficaci negli scorsi decenni per contrastare la dittatura militare, solo una complessa e graduale operazione di apertura da parte del mondo occidentale ha permesso la fine del regime.

I processi di democratizzazione sono lenti e tortuosi, spesso contengono delle variabili imprevedibili. Il grido di dolore dell’Occidente è stato forte per la tragedia dei Rohingya, ma la contrapposizione non potrà garantire né la risoluzione del genocidio nel Rakhine né il processo di democratizzazione del Myanmar. Soprattutto in considerazione delle nuove ambizioni della Cina nella regione.