RD Congo: un conflitto endemico, che fa comodo a Kabila e ribelli
L’8 dicembre, un gruppo di ribelli, membri delle Forze Democratiche Alleate (un’organizzazione considerata come terrorista dal governo ugandese), ha attaccato una base Onu nella regione del Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo, provocando l’uccisione di 15 peacekeepers e cinque membri dell’esercito regolare congolese, oltre al ferimento di almeno altri cinquanta militari.
António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha definito l’attacco “il peggiore nella storia recente dell’Onu”, sollecitando l’attenzione del pubblico e della stampa sugli eventi in Congo. Gli articoli scaturiti però si sono limitati ad una cronaca dello scontro armato, senza dare una visione d’insieme della situazione nella regione.
La tragicità della situazione umanitaria causata dagli scontri nella RD del Congo, infatti, viene ampiamente sottostimata dai media internazionali. Per citare un dato su tutti, dal 2015 i soli rifugiati interni sono ormai quattro milioni, dei quali 500.000 nei mesi fra agosto ed ottobre. Per fare un cinico confronto, la molto più pubblicizzata crisi umanitaria legata ai Rohingya, in Myanmar, coinvolge ‘solo’ 860.000 persone.
Le Forze Democratiche Alleate
Per comprendere come si è arrivati ad una situazione talmente critica è bene cominciare indagando il ruolo e i motivi delle parti in causa, cominciamo da coloro che hanno perpetrato l’attacco, le Forces démocratiques alliées. Le Fda nascono a metà degli Anni Novanta in Uganda, stato confinante con la regione del Kivu, dalla fusione di due gruppi armati, il Tablighi Jamaat ed il National Army for the Liberation of Uganda. La figura più importante dell’organizzazione è stata, dalla fondazione fino al suo arresto in Tanzania nel 2015, Jamil Mukulu, ex-protestante convertito all’Islam radicale.
Il gruppo ha alle spalle vent’anni di guerriglia nelle zone a nord del lago Tanganica, fra Uganda e RD del Congo, e può contare su di una fitta rete di contatti con varie altre organizzazioni criminali, da Boko Haram in Nigeria ad Al-Shabaab in Somalia fino ad Al Qaeda stessa. Questi contatti sono alla base del successo delle Fda, che grazie ad essi non hanno mai perso l’appoggio economico e il reclutamento necessari alla loro sopravvivenza, nonostante gli sforzi per neutralizzarle da parte delle forze congolesi regolari e dell’Onu.
Le azioni di questa organizzazione proto-statale, le etnie in conflitto e le scaramucce di ‘signori della guerra’ contro le forze armate congolesi (oltre che fra le varie organizzazioni) sono alla base dell’instabilità politica delle vaste regioni dell’entroterra congolese e sono la causa principale del gran numero di migranti riportato dall’UnHcr. Ognuno di questi conflitti meriterebbe un articolo a sé: possiamo citare, per la loro particolare violenza, gli scontri che le Fda intrapresero con l’Uganda People’s Defence Force, l’esercito ugandese, nel 2008.
Il ruolo del governo congolese
A governare, solo nominalmente, quei turbolenti territori, è il governo congolese guidato da Joseph Kabila, presidente ‘ereditario’, avendo assunto il ruolo del padre Laurent-Desiré Kabila, assassinato nel 2001. L’immagine pubblica di Kabila jr. è stata fin dagli inizi macchiata da pesanti accuse di corruzione, dispotismo e violazione dei diritti umani.
Già durante il periodo della guerra civile scatenata dal padre, con l’appoggio degli eserciti di Rwanda ed Uganda, per rovesciare il precedente regime di Mobutu Sese-Seko, le unità militari da lui comandate facevano uso di Kadogos, bambini soldato.
Alla morte del padre, Joseph si ritrova catapultato nella posizione di presidente ad interim a soli 29 anni, il primo capo di stato della storia nato negli Anni ‘70. In questa posizione riesce a concludere un accordo di pace con le forze ribelli che avevano assassinato il padre (finanziate da Rwanda e Uganda, gli stessi Paesi che avevano sostenuto la guerra civile di Kabila sr solo pochi anni prima), ponendo fine, ancora una volta solo nominalmente, agli scontri armati. È in questo periodo che viene varata la missione di peacekeeping dell’Onu Monusco, attaccata l’8 dicembre.
Nel 2006 viene varata dal governo una Costituzione che prevede un limite di due mandati presidenziali della durata di cinque anni ciascuno. Si decide, fra grandi polemiche, che il periodo dal 2001 al 2006, in cui Kabila jr è già stato al governo, non conterà.
Nel 2016, dopo quindici anni di governo ininterrotto, gli osservatori internazionali e le opposizioni interne richiedono a gran voce elezioni democratiche (alle quali Kabila per costituzione non avrebbe potuto presentarsi), ma il presidente si rifiuta di indirle. A suo parere è necessario che si stabilizzi la situazione e – una volta che ciò sarà avvenuto – che si faccia un censimento generale, al fine di evitare brogli.
Le possibilità che gli scontri armati si azzerino sono sostanzialmente nulle: Kabila, vista la sua storia personale e i 15 anni di governo che ha alle spalle, lo sa benissimo. L’obiettivo è chiaro: mantenere gli scontri abbastanza vivi da potere continuare a posticipare le elezioni, senza che la situazione degeneri nel caos più totale, per evitare troppe pressioni internazionali causate dallo sconquasso umanitario.
I giornali congolesi, scarsamente diffusi a causa dell’analfabetismo rampante, e tutti controllati dal regime di Kinshasa, dipingono il presidente come l’unico in grado di preservare il fragile equilibrio. Ma forse è invece proprio Kabila a rendere l’equilibrio più fragile di quanto potrebbe essere.
Quali le prospettive, a questo punto
La storia della Repubblica Democratica del Congo è l’epitome di quanto di peggio abbia offerto il colonialismo con i suoi strascichi. Difficile prospettare una soluzione che fermi lo stillicidio di violenze in corso dai tempi in cui il territorio era proprietà privata di Leopoldo II, re del Belgio. Quello che possiamo forse fare è solo cercare di prestare attenzione a quello che succede nelle zone di conflitti che non riescono a fare notizia ed esserne almeno coscienti.