Cina-Taiwan: prove di disgelo fra le due sponde dello Stretto
Il 2017 è stato un anno molto intenso per il delicato equilibrio delle relazioni sino-taiwanesi. Nel dicembre 2016, l’inedito stile diplomatico di Donald Trump aveva portato le Cross-Strait relation all’attenzione dei mezzi di comunicazione con la telefonata alla presidente taiwanese Tsai Ing-Wen.
L’episodio era stato inizialmente interpretato dai principali analisti internazionali come la prova dell’incapacità diplomatica dell’allora neoeletto presidente statunitense; solo nelle settimane seguenti, quando è emerso come la telefonata fosse stata accuratamente pianificata dallo staff di Trump, il governo taiwanese ha cominciato a temere il peggio.
Il principale timore a Taipei è quello di diventare una pedina di scambio nelle delicate trattative tra Washington e Pechino; trattative che includono gli scambi commerciali tra le due principali economie mondiali, il debito pubblico statunitense e la necessità di garantire l’acceso al mercato cinese. Temi ormai cruciali per l’economia degli Stati Uniti.
Trump e l’Unica Cina
Da quel momento, la One China Policy – ossia il compromesso semantico che ha garantito la sopravvivenza dei rapporti diplomatici tra Stati Uniti, Taiwan e Cina sin dagli anni Settanta – è tornata prepotentemente alla ribalta sui media internazionali. Si tratta di un vero e proprio stratagemma linguistico e diplomatico: nel 1972, durante la complessa fase di apertura diplomatica, gli Stati Uniti – di fronte all’insistenza di Pechino – accettarono di dichiarare che Taiwan e la Cina sono parte inalienabile di una “Unica Cina”.
Una definizione che lasciò spazio a differenti interpretazioni del concetto e permise di mantenere una sostanziale convivenza pacifica tra i paesi interessati. Il 1992 Consensus è una variante della One China Policy che prevede due distinte interpretazioni: entrambe le sponde dello Stretto di Taiwan sono concordi sull’esistenza di una unica entità sovrana che comprenda la Cina continentale e l’isola, ma entrambe le parti si riconoscono come l’unico legittimo rappresentante della sovranità.
La questione taiwanese è rimasta fuori dai colloqui di Trump in Asia. Il viaggio del presidente statunitense ha avuto una durata di 13 giorni – la più lunga missione asiatica sin dai tempi di George Bush padre – e ha toccato cinque nazioni: Corea del Sud, Vietnam, Filippine e Giappone, oltre alla Cina. Uno degli obiettivi principali del viaggio presidenziale era quello di trovare una soluzione ai fattori di instabilità nella regione, in particolare alla questione nordcoreana. Gli analisti taiwanesi avevano espresso il timore che il tema delle Cross-Strait relation venisse trattato durante la missione di Trump, visto il problematico precedente della telefonata.
Hsu Szu-chien, presidente della Taiwan Foundation for Democracy, aveva dichiarato, nei giorni immediatamente precedenti al viaggio di Trump in Asia, che l’omissione della delicata situazione sino-taiwanese dai colloqui era la soluzione più auspicabile per la stabilità delle Cross-Strait relation. Nell’interpretazione del presidente del think tank legata al governo di Taipei, lo stile diplomatico di Trump, brusco e talvolta irrispettoso delle sfumature, non si adatta bene alla discussione sulla One China Policy.
Apertura di Xi?
L’approccio di Xi Jinping alla questione taiwanese nel diciannovesimo congresso del Partito comunista cinese – che ha sancito la definitiva affermazione del presidente, con l’inserimento del suo contributo ideologico nella Costituzione del Partito -, è stato definito dai principali analisti come equilibrato e moderato.
Xi Jinping ha menzionato il 1992 Consensus e ha sottolineato come il raffreddamento nelle Cross-Strait relation sia dovuto proprio al suo mancato riconoscimento da parte della presidente Tsai Ing-wen, incolpando Taiwan del deterioramento dei rapporti senza riferirsi direttamente a azioni specifiche portate avanti da Pechino.
Il presidente cinese ha poi ricordato i numerosi vantaggi che la popolazione taiwanese potrebbe ricavare da un’unificazione e ha menzionato il cospicuo intercambio economico tra Pechino e Taipei. Xi Jinping ha poi apertamente dichiarato di essere pronto ad intervenire militarmente in caso di eventi che possano configurare l’indipendenza taiwanese e di voler combattere ogni movimento separatista a Taiwan. I riferimenti del presidente cinese vanno analizzati nel contesto del congresso del Partito del quale è alla guida – un momento propagandistico e celebrativo della politica di Xi -, ma sono anche evidenti segnali di apertura nei confronti di Taiwan.
Un nuovo approccio da parte del Democratic Progressive Party (Dpp, il partito alla guida di Taiwan) alla questione dell’indipendenza appare necessario per poter riaprire un dialogo con Pechino. In particolare, Tsai Ing-wen sta affrontando un momento di crisi di popolarità, e la revisione dell’approccio con la Cina all’interno del suo partito può costituire una dinamica molto complessa.
La posizione Ko Wen-je, il sindaco di Taipei, può rappresentare una possibile soluzione. Ko non ha espressamente accettato il 1992 Consensus, ma ha dichiarato di “comprendere e rispettare” l’insistenza di Pechino in quel senso. Il sindaco di Taipei, che ha una buona popolarità nonostante alcuni comportamenti pittoreschi e curiosi, ha affermato che la gente ai due lati dello Stretto fa parte di un’unica famiglia.
Tsai Ing-wen potrebbe tentare di ridefinire le relazioni con Pechino proprio partendo da una dichiarazione su questa linea; ad oggi le comunicazioni nello Stretto – ufficiali e non – sembrano interrotte, ma il discorso di Xi è stato interpretato proprio come una possibile apertura a Taipei, al di là dei consueti toni propagandistici.
Il ruolo di Ue e comunità internazionale
Gli sforzi taiwanesi dovrebbero idealmente essere accompagnati da azioni mirate da parte della comunità internazionale. Secondo Bonnie S. Glaser, direttrice del China Power Project al Center for Strategic and International Studies, gli Stati Uniti, oltre a rinsaldare i rapporti con Taipei, dovrebbero chiaramente comunicare a Pechino il fermo rifiuto di misure che danneggiano l’economia di Taiwan e la sua partecipazione alla comunità internazionale, ed eventualmente intraprendere azioni per compensare l’impatto negativo delle politiche cinesi.
In questo senso, anche un’azione congiunta dell’Unione europea nei confronti di una distensione dei rapporti sino-taiwanesi potrebbe essere decisiva, ma dovrebbe essere accompagnata da una politica comune di tutti gli Stati.
Sino ad oggi è stato lasciato a Bruxelles il delicato compito di ammonire la Cina sulle Cross-Strait relation, mentre le nazioni europee si conformavano alla linea di Pechino in una dinamica che, inserita nel quadro dell’approccio cinese favorevole agli accordi bilaterale e scettico nei confronti dell’approccio multilaterale, si dimostra totalmente inefficace nella difesa della democrazia taiwanese.
Foto di copertina © Craig Ferguson via ZUMA Wire