Armi: controllo sull’export italiano di materiale militare
Una recente inchiesta del New York Times ha riportato l’attenzione sulla vendita all’Arabia Saudita di bombe aeree prodotte in Italia. In realtà, quello che è stato presentato come uno scoop non fa altro che riproporre in modo più accattivante quanto già mostrato in un servizio televisivo de Le Iene nell’ottobre 2016 e poi ripreso dalla stampa nazionale, oltre che in interrogazioni parlamentari.
In questo caso, al di là dell’informazione sulle reali esportazioni di equipaggiamenti militari, vi sono due accuse non provate che, anche a causa dell’inizio della campagna elettorale in Italia, rischiano di innescare una polemica esclusivamente politica: 1) l’Italia sarebbe uno dei principali esportatori di armamenti verso l’Arabia Saudita; 2) l’Italia sarebbe complice di operazioni poco trasparenti e lo Stato parteciperebbe attivamente alle esportazioni.
I dati e la trasparenza dell’export militare saudita, non soggetto a restrizioni
Secondo l’autorevole Sipri di Stoccolma, l’Arabia Saudita è stata nel periodo 2012-16 il secondo importatore di armi nel mondo, dopo l’India, con l’8,2%, di cui il 52% dagli Stati Uniti, il 27% dal Regno Unito, il 4,2% dalla Spagna, il 4,1% dalla Francia, il 2% dal Canada, l’1,9% dalla Germania e l’1,3% dall’Italia. Ma, secondo l’inglese Ihs-Jane’s, già nel 2014 l’Arabia Saudita sarebbe diventata il primo importatore mondiale e nel 2015 avrebbe acquistato 9.8 miliardi di dollari di armamenti.
Quanto al futuro, il presidente Usa Donald Trump, nella visita a Riad dello scorso maggio, ha stipulato accordi per vendere ai sauditi 110 miliardi di dollari di equipaggiamenti militari nei prossimi anni. D’altra parte, l’Arabia Saudita non è sottoposta ad alcuna restrizione o embargo da parte dell’Onu e dell’Unione europea ed anzi è un prezioso alleato finanziario e militare in moltissimi missioni internazionali di stabilizzazione di aree di crisi e contrasto al terrorismo
Quanto alla scarsa trasparenza, tutte le esportazioni risultano autorizzate e le relative informazioni puntualmente riportate nella relazione annuale al Parlamento, con un livello di dettagli unico al mondo. L’associare poi le immagini di auto dei carabinieri e di mezzi dei vigili del fuoco, impegnati in servizi di scorta e di sorveglianza, al presunto coinvolgimento dello Stato italiano è semplicemente ridicolo: trattandosi di esplosivi, ci mancherebbe solo che non fossero controllati dalle autorità.
Il problema irrisolto del coinvolgimento di uno Stato in un conflitto armato
Vi è, però, sullo sfondo un problema che la comunità internazionale non ha risolto, quello della definizione del coinvolgimento in un conflitto armato da parte di uno Stato. Fino allo scorso secolo, nei conflitti tradizionali era relativamente più semplice individuare questa situazione, anche se non andrebbero dimenticate le polemiche sull’intervento americano in Vietnam e quelle, più limitate, sull’intervento inglese nelle Falkland.
Con l’inizio dei conflitti asimmetrici, la questione è diventata molto più complessa sul piano politico e su quello giuridico. Basti pensare alle discussioni e alle polemiche nel nostro Paese sulla nostra partecipazione alle missioni internazionali, sempre presentate come “missioni di pace”, con la conseguenza che vi applichiamo il codice militare di pace, anche se comporta minori tutele nei confronti dei civili coinvolti.
Risulta, quindi, fuorviante sostenere che l’Arabia Saudita andrebbe considerata come coinvolta in un conflitto armato perché interviene insieme ad altri Paesi a sostegno del governo dello Yemen, mentre non dovevano esserlo considerati Francia e Regno Unito che bombardarono unilateralmente la Libia e tutti quelli che lo fanno adesso, così come quelli che lo hanno fatto in Siria. Per non parlare dei missili e delle bombe americane sganciate da velivoli pilotati e non per contrastare i movimenti terroristici e che inevitabilmente comportano pure vittime civili, anche se gli Stati Uniti non si considerano coinvolti in nessun conflitto armato.
Le carenze della normativa italiana
Questa occasione può essere, comunque, utile per richiamare l’attenzione su una delle carenze della normativa italiana di controllo dell’export militare, anche se definita dai pacifisti la “migliore del mondo”, pur di impedirne ogni cambiamento, salvo poi lamentare costantemente la sua puntuale applicazione. La legge 185 del 1990 prevedeva un Comitato interministeriale, presieduto dal presidente del Consiglio e formato dai Ministri più coinvolti, con questo compito: “Formula gli indirizzi generali per le politiche di scambio nel settore della difesa e detta direttive d’ordine generale per l’esportazione”.
Dopo solo tre anni fu soppresso, insieme ad altre decine, in uno dei vari tentativi di rendere più efficiente l’attività del Governo. Da allora le linee della nostra politica esportativa vengono decise dal solo Ministero degli Esteri e per di più prevalentemente a livello tecnico. Sarebbe, invece, il caso di domandarsi se non sia il caso di ricostituire uno specifico Comitato a livello di Ministri che prenda le decisioni sia di indirizzo politico sia nei casi che presentano una forte rilevanza internazionale.