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La rotta mai chiusa

Migranti: dietro la ripresa dei flussi di giovani dalla Tunisia

14 Nov 2017 - Paolo Howard - Paolo Howard

“Stavolta si fa sul serio. Lampedusa è in stato d’assedio. Il centro di accoglienza tracima tunisini. Ce ne sono dappertutto”. Correva l’anno 2011 e sebbene l’articolo riporti una data ormai lontana nel tempo, queste parole sono oggi di un’attualità preoccupante. Dall’inizio dell’anno, secondo il Ministero dell’Interno, 111.397 persone sono sbarcate in Italia e di queste 5.433, pari al 5% circa, provengono dalla Tunisia.

Sebbene la quota percentuale non sia rilevante in termini assoluti, più interessante è osservare la sua variazione nel tempo. Nonostante già nel primo semestre sia ravvisabile un progressivo crescendo del flusso (16 a gennaio, 66 a febbraio, 74 a marzo, 75 ad aprile, 128 a maggio e 221 a giugno), è a partire dal mese di luglio che il numero di arrivi di migranti tunisini ha registrato un’impennata, facendo schizzare ogni previsione. Dall’inizio dell’estate alla fine del mese di ottobre sono sbarcati in Italia 4.853 migranti tunisini. Un numero duplicato mese dopo mese: 266 a luglio, 511 ad agosto, 1.293 a settembre e 2.783 a ottobre. Dato ragguardevole se comparato ai valori del 2016, quando arrivarono solo 536 migranti.

Se il trend registrato venisse confermato nei prossimi due mesi, alla fine dell’anno potrebbero essere anche 10.000 i tunisini approdati in Italia: un numero che riporta in auge quella rivoluzione dei gelsomini che nel 2011 spinse 28.017 persone a raggiungere l’Italia, per ovviare al disagio sociale ed economico che aveva visto precipitare al 42.5% il tasso di disoccupazione giovanile.

La Tunisia dopo la rivoluzione, tra politiche inadeguate e limitazioni alla libertà
Dal 2011, le politiche liberali messe in atto dai governi post rivoluzionari non sono state in grado di stimolare sufficientemente il mercato e il deficit occupazionale. Nel 2016 il tasso di disoccupazione giovanile stenta a mostrare significative riprese (34,5%), a fronte di una crescita reale del PIL pari al 1%. Peraltro, le precarie condizioni economiche sono state aggravate dalla decretazione dello stato emergenziale, proclamato nel novembre 2015 e prorogato anche quest’anno. Lo stato d’emergenza ha consentito alle autorità preposte di intervenire per sedare ogni evento classificabile quale minaccia all’ordine pubblico, censurando la stampa e i media televisivi e vietando scioperi e manifestazioni, anche facendo ricorso all’uso della forza. Queste politiche hanno aizzato il malcontento popolare, che non ha messo fine al proliferare delle proteste contro la disoccupazione e la condizione di sottosviluppo.

L’ultimo attacco alla libertà di espressione e di opinione è stato sferrato lo scorso 13 luglio, quando l’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo ha ripreso la discussione sul progetto di legge n. 25, presentato in Parlamento ad aprile 2015 e riguardante la persecuzione degli abusi commessi contro le forze armate. Il provvedimento dispone pene molto severe (10 anni di prigione e una tassa di 50 mila denari) per chiunque commetta atti che ledano le forze armate e i segreti di sicurezza nazionale. Non sorprende che nel 2017 la Tunisia è stata nuovamente classificata quale Paese parzialmente libero. In questo contesto, i giovani restano la categoria più colpita.

Secondo un’indagine del Forum tunisino per i diritti economici e sociali, il 67% delle persone che sceglie di abbandonare in maniera irregolare la Tunisia sono giovani uomini tra i 20 e i 30 anni, la maggior parte dei quali non diplomati o senza lavoro, originari del governatorato di Medinine. Per molti di loro l’unica alternativa per reagire è migrare, anche se in condizioni irregolari e con mezzi improvvisati: piccole barche da pesca partite da Sfax e dirette verso aree costiere siciliane poco presidiate.

La chiusura del fronte libico non c’entra. La rotta tunisina è la stessa di sei anni fa
Sulla stampa italiana, a partire dal mese di luglio, si sono moltiplicati i titoli che davano notizia di sbarchi fantasma in Sicilia, specie sull’isola di Lampedusa, dove ad ottobre 2017  è stato  registrato il maggior numero di sbarchi tra i porti del meridione (168), di cui oltre il 60% nei mesi tra luglio e ottobre.

E’ evidente che esiste una connessione tra il fenomeno migratorio del 2011 e quello che si sta verificando in questi ultimi mesi. Oggi come sei anni fa, il governo non è stato in grado di rispondere al malessere della società tunisina e a poco sono serviti i finanziamenti ricevuti dall’Unione europea negli ultimi anni. Per questo, non è corretto parlare dell’apertura di una nuova rotta migratoria a seguito della “chiusura” del fronte libico. La rotta è quella già esistente da sei anni, mai chiusa nel tempo. Piuttosto, sarebbe più corretto dire che dopo il 2011 si è drasticamente ridimensionata ed è stata oscurata dai numeri della rotta libica.

Considerare la rotta tunisina quale mera alternativa a quella libica appare riduttivo. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri (secondo il Forum tunisino dei diritti economici e sociali, tra il 2011 e il 2016 il 74,6% delle persone che hanno lasciato il Parse sono cittadini tunisini). Sebbene negli ultimi mesi il flusso di migranti sub sahariani lungo il confine tunisino-libico sia cresciuto (migranti che vengono in Tunisia per trovare lavoro e raccogliere i soldi per pagare i passeur), ad oggi i protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna.