Libia: un percorso dal personalismo allo State building
Negli scorsi mesi di settembre e ottobre, le riviste francesi Jeune Afrique e Revue pour d’intelligence du monde hanno dato ampio spazio al dossier Libia, pubblicando approfondimenti e interviste a figure quali quella del generale Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica, e di Béchir Saleh, già capo di gabinetto di Gheddafi e ambasciatore di lungo corso.
Haftar, 73 anni, sedotto dal panarabismo nasseriano, era entrato nell’accademia militare reale di Bengasi nel 1963. Fu combattente nella guerra del Kippur del 1973 e decorato di medaglia egiziana del Sinai per le azioni condotte a ridosso della linea difensiva israeliana di Bar-Lev. Nel 2015, il gruppo terroristico Ansar al Sharia in Libia offrì 100.000 dinari per la sua testa. Nel luglio 2017, è stato il co-protagonista – assieme a Fayez al Serraj – dell’incontro di La Celle-Saint-Cloud ospitato dal presidente francese Emmanuel Macron.
Saleh, classe 1946, nato nel Fezzan libico e membro della tribù araba dei Beni Miskine, originaria del Marocco, fu da principio membro dell’opposizione alla monarchia libica di Idris I. Sposato con una donna libanese, attualmente sotto sanzioni dell’Ue e rifugiato in Sudafrica, si dichiara pronto, nell’intervista alla rivista francese, a concorrere alle elezioni presidenziali libiche previste nel 2018.
Come de-personalizzare la politica del futuro
Al di là delle attuali figure forti e delle contingenze elettorali di breve termine, nel lungo periodo (orizzonte temporale al 2027) sarà fondamentale per la stabilità politica libica riuscire in qualche modo a de-personalizzare la politica stessa, focalizzando l’attenzione sulle funzioni di governance reale, sulle best practices e sulle configurazioni delle cariche più che dare risalto alle singole persone fisiche e al loro peso carismatico. Un’intera generazione di personalità, ora sulla scena, dovrà infatti essere sostituita per ragioni anagrafiche.
In questo passaggio generazionale, l’esercizio di un credibile State building e Nation building appare elemento critico. Il modello cui tendere, per essere efficace, dovrà verosimilmente ibridare caratteristiche proprie del contesto libico con quelle tipiche della modernità occidentale. Storicamente in Libia la dimensione verticale del potere si è sempre posta in relazione con la dimensione orizzontale, in una sorta di condivisione di sovranità tra poteri formali e informali. Si pensi al valore relativo del tribalismo.
La rilevanza relativa della dimensione orizzontale del potere
Un autore rilevante al riguardo è Thomas Husken, senior research fellow al dipartimento di etnologia dell’Università di Bayreuth, Germania. Secondo la sua analisi (International Affairs, vol. 93 nr. 4 del luglio 2017), il tribalismo in specifiche aree della Libia non genererebbe caos politico, operando al di fuori del livello statuale, ma diventerebbe esso stesso un fattore creativo e legittimante di potere, assieme ad altri fattori strutturati attorno a singole persone e alla politica formale. Il caso preso in esame è quello della tribù degli Awlad Ali e delle loro attività commerciali al confine tra Libia ed Egitto.
L’ordine politico in questo caso è negoziato anche a livello orizzontale-informale, non solo verticale-gerarchico. Nella pratica reale degli ultimi decenni l’autorità politica formale ha chiesto lealtà politica all’autorità informale (tribù, clan) in cambio di gradi di libertà locali. Uno State building sui generis dunque, che tiene conto ad esempio delle strutture di fondo e delle realtà effettive agenti nel cosiddetto borderland libico-egiziano. Significativo in proposito anche l’indicatore linguistico, per il quale ad esempio la maggior parte degli Awlad Ali presenti in Egitto attorno all’area urbana di Marsa Matruh parla dialetto libico.
Tra gruppi armati e diversità geografiche
La questione dei gruppi armati attualmente operanti in Libia rimane altro elemento di destabilizzazione centrifuga, laddove questi gruppi spesso mettono insieme ex-militari di regime e fighters di diversificata estrazione. In questo contesto amnistie e reintegrazioni dovrebbero essere attentamente considerate nel caso libico, per evitare fenomeni di ritorno indesiderati come avvenuto nel contesto iracheno a seguito di un’opera di de-baathificazione a tutto campo.
La presenza nel Paese di oltre 27 milioni di armi stimate e spalmate su circa 6 milioni di abitanti, secondo quando dichiarato nel 2016 dal politico libico Mahmoud Gebril – già premier ad interim in Libia nel 2011- è inoltre ulteriore elemento oggettivo del potenziale di violenza esprimibile al micro-livello locale e di area nel cosiddetto ‘Deep Maghreb’.
Da una prospettiva macro-strutturale, da più parti si richiama il concetto di unità per la Libia, al di là delle diversità storiche tra Cirenaica, Tripolitania e Fezzan. Ma come insegnano i casi di Usa e India, l’unità si può intendere praticamente in tanti modi diversi. Si pensi nello specifico al caso del laboratorio politico indiano, dove esistono Stati creati addirittura su base linguistica e ove lo stato del Telangana è diventato il 29° Stato dell’Unità solo nel 2014.
L’approccio dell’Onu e il ruolo delle donne
Venendo infine alle Organizzazioni Internazionali al lavoro sul dossier libico, una parola conclusiva va all’Onu. Leggendo il report del Segretario Generale datato 22 agosto 2017 relativo alla missione Unsmil, alla cui guida dal luglio scorso opera il libanese Ghassan Salamé, si enumerano le diverse note criticità che caratterizzano oggi il Paese (tra i quali i rischi di fallibilità finanziaria e la degradazione progressiva della qualità di vita della popolazione).
Salamé in una intervista rilasciata a Jeune Afrique a ottobre ha comunque affermato come il suo scopo ultimo non sia lavorare con singoli individui o giudicare le loro affiliazioni pregresse, ma per l’insieme della popolazione e della Libia nel suo complesso (“Je ne travaille pas avec les individus, mais pour l’ensamble de la population” e “Je ne m’interesse pas au passé des gens mais à l’avenir du pays”).
In questo contesto, emerge dallo stesso report Onu di agosto il significativo ruolo sociale delle donne libiche, che rappresentano ad esempio ben il 56% del personale impiegato negli ospedali libici. Proprio la componente femminile del Paese dovrebbe essere messa in condizione di poter esprimere una funzione di conciliazione tra le parti e di supporto endogeno sostanziale al ‘Nation building’, portando alla vita nuovi modelli socio-politici e inter-generazionali.