Libia: difficoltà per la mediazione di Salameh (Onu)
In poco più di due mesi, la mediazione intrapresa dal nuovo rappresentante dell’Onu in Libia, Ghassan Salameh, ha conosciuto sviluppi di non poco conto, ma non facili da valutare. Con grande rapidità, Salameh ha messo in atto il primo ciclo del piano d’azione da lui presentato all’Assemblea generale dell’Onu del settembre scorso. In questo primo ciclo la Camera dei Deputati di Tobruk (CdD, figlia delle elezioni del 2014) e l’Alto Consiglio di Stato di Tripoli (Acs, figlio dell’Accordo politico libico – Apl, firmato a Skhirat nel dicembre 2015) hanno nominato ciascuno una loro commissione per redigere congiuntamente gli emendamenti all’Apl necessari a governare il Paese durante la transizione che dovrebbe portare alla soluzione della crisi.
Le commissioni hanno lavorato dal 25 settembre al 21 ottobre producendo un testo che non sembra avere raccolto il consenso necessario. Così, un testo di emendamenti[1] è stato redatto da Salameh stesso e sottoposto al voto della CdD il 21 novembre, suscitando l’insoddisfazione dell’Acs che, da un lato, contesta alcuni contenuti e, dall’altro, argomenta che stando all’art. 12 dell’Apl il testo dovrebbe avere pure la sua approvazione.
Emerge una certa impazienza, come già con i predecessori di Salameh, Léon e Kobler a Skhirat. Il che ancora una volta potrebbe rivelarsi dannoso: gli inviati del’Onu sono dei mediatori e non degli arbitri e perciò non dovrebbero emettere lodi.
I nuovi assetti, nelle proposte di Salameh
Come che sia, le modifiche proposte da Salameh e approvate dalla CdD prevedono un Consiglio presidenziale (Cp) di tre membri – al posto dei nove originariamente istituiti dall’Alp –, ciascuno in rappresentanza di una delle tre grandi regioni della Libia, e un governo retto da un primo ministro designato ma ben distinto dal Cp (mentre in precedenza il presidente del Cp era anche il primo ministro).
All’Acs vengono date alcune competenze nuove che lo associano ad alcune importanti decisioni della CdD, che però resta il Parlamento di un sistema di transizione fondamentalmente monocamerale e beneficia quindi di una primazia politica rispetto all’Acs. La statuizione politicamente più rilevante, però, è l’assegnazione al Cp, fra le altre responsabilità, del comando supremo delle forze armate. Questo comando è quanto sta da sempre al centro della contesa fra le parti libiche.
Il nodo del comando delle forze armate
È stata rinviata ogni più articolata decisione sull’assetto definitivo della catena di comando delle forze armate, che evidentemente e comprensibilmente Salameh intende riservare alla Conferenza nazionale a larga partecipazione, che nel suo piano è quella destinata, assieme alla Commissione per la redazione della Costituzione, a definire il regime politico libico. L’attribuzione sin d’ora del comando delle forze armate al Cp, tuttavia, indica bene l’orientamento che l’Onu intende dare alla questione, in contrasto con le ambizioni del generale Heftar, che vuole una riserva monopolistica sulla riforma del settore di sicurezza e delle forze armate nazionali.
In questa prospettiva, sorprende che l’Acs non sia d’accordo con le proposte di Salameh e, per contro, che le abbia appoggiate la CdD. Il presidente misuratino dell’Acs, Suweihli, e la maggioranza dell’Acs (che origina dai ribelli rivoluzionari ed islamisti di Libia Down) dovrebbero apprezzare questo orientamento chiave delle proposte Onu nell’attribuzione dei poteri che, come abbiamo appena detto, certamente influenzerà i passi costituzionali futuri nel senso di una riforma del settore di sicurezza estranea a poteri personali. Al contrario, la CdD, in particolare il suo presidente Aqila Saleh Issa, stretto alleato e sostenitore di Heftar, avrebbe dovuto ostacolare quelle stesse proposte.
Incongruenze ed evoluzioni in corso
Come si spiegano queste incongruenze? Probabilmente riflettono un’evoluzione del quadro libico che i libici percepiscono più prontamente di noi. Per cercare di capire si può forse cominciare a notare che mentre la CdD aderisce alla ‘roadmap’ dell’Onu, gli ambienti dell’Acs propendono in realtà per un altro percorso e cioè per un’anticipazione delle elezioni, in modo da riflettere i cambiamenti nell’opinione pubblica intervenuti dal 2014 e meglio riversarli nella Conferenza nazionale e nella Costituzione: quindi esattamente l’inverso di quanto prevede il Piano d’Azione di Salameh.
Evidentemente gli avversari di Heftar si aspettano dalle elezioni una maggioranza di consensi in grado di liquidare lui e i neo-gheddafiani (che, con la liberazione di Seif al-Islam, stanno sempre più chiaramente riemergendo nella politica libica). Si può essere scettici su questa aspettativa, perché il governo Serraj, che le correnti politiche rappresentate nell’Acs hanno sostenuto, è collegato nell’opinione pubblica libica al grave degrado economico, civile e infrastrutturale del Paese. E’ difficile che nei sei mesi che l’Acs propone per indire le elezioni il premier riesca a fare quello che non ha saputo o potuto realizzare fin qui, capovolgendo le percezioni degli elettori, come sembra pensare Karim Mezran.[2] In realtà, i libici possono invece avere perduto ogni speranza in Serraj e riporre qualche speranza in Heftar: in questo senso il processo della Conferenza nazionale prima delle elezioni potrebbe aiutare a cambiare le loro percezioni.
Heftar da parte della soluzione a ‘la soluzione’?
Perciò, quelli dell’Acs potrebbero sbagliarsi. Potrebbero vedere bene, invece, quelli della CdD se valutano che le condizioni politiche in generale sono favorevoli a Heftar, oggi appoggiato e corteggiato non solo dai suoi consueti alleati, l’Egitto, gli Emirati e la Russia, ma anche dagli europei, inclusa l’Italia. L’idea che Heftar sia “parte della soluzione” – lanciata ala conferenza di Vienna del maggio 2016 e divenuta subito un mantra -, con il consumarsi del governo Serraj e della mediazione dell’Onu, si è trasformata nell’idea che Heftar – ben gestito dalla diplomazia internazionale – può essere la soluzione.
Come è stato rilevato da Arturo Varvelli, le tendenze affermatesi nel corso dl 2017 hanno contribuito “a creare un contesto internazionale di informale appoggio alla causa di Heftar e certamente poco favorevole alla stipula di un compromesso”.[3] Al punto, si può anzi aggiungere, che nel 2017 gli alleati di Heftar hanno compreso che in tale contesto un compromesso conviene a Heftar e hanno premuto perché egli si orientasse in questo senso. Heftar lo ha fatto senza mai lasciare cadere la sua intransigenza. Con l’iniziativa di Macron del vertice a Saint Cloud il generale ha capito che l’appoggio internazionale si è allargato all’Europa. Ha accennato una maggiore collaborazione, pur mantenendo una costante retorica aggressiva versoi i suoi avversari e sempre ambigua verso i suoi neo-sostenitori europei.
I limiti del volontarismo dell’azione dell’Onu
Dunque una spiegazione forse accettabile è che Heftar e i suoi alleati hanno appoggiato la piattaforma di Salameh perché stimano che essa indebolisca i loro già deboli avversari e si sposi bene con la tendenza generale e internazionale che è loro favorevole da tempo. Un’altra ipotesi è che Saleh Issa, uomo molto tenace e ambizioso, dopo essersi innalzato sulle spalle di Heftar, veda ora le condizioni per scavalcarlo.
Qualunque sia la spiegazione dei meandri della politica libica, per ora sembra di poter concludere che nell’insieme le prospettive della mediazione Salameh, sebbene appoggiata da tutti, ha forse più nemici internazionali e regionali di quelle precedenti. I mediatori dell’Onu continuano a praticare il volontarismo per aggirare una situazione impervia che il volontarismo non può cambiare. Tutto questo potrebbe giocare a favore di Heftar, ma resta indubitabile che, se così dovesse avvenire, i suoi avversari libici non l’accetterebbero e si riproporrebbe in Libia un confitto violento, un conflitto del resto sta ampiamente fermentando.
[1] https://www.libyaobserver.ly/news/text-un-envoy%E2%80%99s-proposed-amendments-lpa
[2] http://www.atlanticcouncil.org/blogs/menasource/can-libya-put-the-cart-before-the-horse