Esodo dei Rohingya: il racconto della Croce Rossa italiana
Dal 27 agosto ad oggi, più di mezzo milione di Rohingya è riuscito ad attraversare lo stretto braccio di mare che separa lo Stato birmano del Rakhine dalle coste bengalesi. Le persecuzioni e i maltrattamenti a cui questa popolazione di religione islamica viene sottoposta in Myanmar non accennano a fermarsi, esattamente come il flusso di rifugiati verso il Bangladesh. Le autorità di Dacca lottano per arginare quella che sta assumendo a tutti gli effetti i connotati di una delle peggiori crisi umanitarie di sempre e recentemente anche la Croce Rossa italiana ha portato il proprio contributo in aiuti e assistenza. Per comprendere meglio la situazione, abbiamo intervistato il suo presidente Francesco Rocca, appena rientrato da Cox’s Bazar, sul Golfo del Bengala.

Molto si è letto e scritto sulla situazione dei Rohingya al momento. Potrebbe darci un’idea dei numeri e delle condizioni in cui queste persone arrivano sulle coste del Bangladesh?
I numeri sono quelli più o meno noti; il 4 ottobre erano 507.000. Teniamo presente che ne arrivano migliaia ogni giorno ed il flusso non si ferma. Ci sono circa 40mila persone nella no man’s zone, quella terra al confine tra il Myanmar e il Bangladesh. L’esodo dei Rohingya è caratterizzato da condizioni assolutamente precarie; arrivano dopo un lungo viaggio, sono sicuramente disidratati, alcuni di loro hanno ferite, altri hanno problemi di alimentazione e arrivano senza nulla.
Negli ultimi anni ho purtroppo avuto modo di vedere diversi contesti di crisi, ma mai come in questo caso ho trovato una situazione così disperata e disperante, una delle più difficili che ho io abbia visto nella mia esperienza. Numeri così alti registrati in pochi giorni non consentono di vedere la luce in fondo al tunnel. In poche settimane si è formata una città non sviluppata in altezza, ma in estensione, di alloggi di fortuna. Il tema è l’accessibilità e la vastità dell’area in cui queste persone si trovano senza nessun tipo di servizio. Si cammina, a volte per ore, circondati da piccole capanne, alloggi di fortuna, dove tra l’altro vivono tantissime donne e bambini, oltre la metà.
Che testimonianze avete raccolto?
Storie di persone che hanno perso parenti, magari perché uccisi. È impossibile da verificare, ma – ripeto – le condizioni sono di grande bisogno. Il governo del Bangladesh sta collaborando in molti modi, per quanto sia un Paese che ha già di per sé delle difficoltà strutturali. C’è però grande solidarietà e partecipazione. In quest’area enorme, sconfinata, il disagio è dato dal fatto che le strade ad un certo punto non sono più percorribili con la macchina. Si può dunque camminare ore ed ore per la distribuzione degli aiuti. Io mi auguro che nelle prossime settimane la situazione possa migliorare; però, considerate la stagione e le piogge, questa è davvero una delle condizioni più drammatiche che abbia mai visto.
Come ha accennato, il Bangladesh riveste un ruolo fondamentale, ma per quanto ancora sarà in grado di reggere un afflusso del genere?
Senza uno sforzo enorme della comunità internazionale stiamo parlando del nulla: il Bangladesh non può reggere. Mezzo milione di migranti è un numero pazzesco: noi come Paese siamo andati in crisi per meno di 200.000 persone distribuite in un anno. Si pensi mezzo milione in tre settimane in condizioni strutturali completamente diverse dall’Italia. Qui, serve uno sforzo di tutta la comunità internazionale. Il solo movimento della Croce Rossa grazie al lavoro che stiamo facendo con la Croce Rossa di Ginevra e le altre consorelle non è sufficiente. Sono presenti sul campo tantissime organizzazioni che portano il loro contributo in maniera purtroppo ancora caotica. Ma il coordinamento è davvero difficile in quel contesto.
Avete avuto contatti anche con altri Paesi che accolgono i Rohingya?
Per il momento ci stiamo concentrando sulla crisi in Bangladesh. I nostri colleghi del comitato internazionale della Croce Rossa hanno la possibilità e stanno portando aiuto anche a quelli che sono bloccati nella no man’s zone. In Myanmar si dialoga per cercare di avere maggior accesso possibile alle zone, però in questo momento la nostra attenzione come Croce Rossa italiana è focalizzata sul Bangladesh.

L’Onu ha recentemente definito la situazione un possibile crimine contro l’umanità. Qual è la sua opinione a riguardo?
Questo è un tema che spetta definire alle Nazioni Unite e non a noi. Quello che noi vediamo e che ci preme sottolineare è sicuramente che nessun essere umano può vivere e può essere ridotto in quelle condizioni. Poi ci sono gli altri, i tribunali internazionali dei crimini contro l’umanità; a me onestamente interessa avere accesso a queste persone, che hanno bisogno di tutto. Quello che diciamo è che le persone vanno protette, la dignità va protetta, spetta ad altri accertare di chi siano le responsabilità. A noi importa occuparci di chi è in una situazione di bisogno.
La storia delle persecuzioni contro l’etnia Rohingya data a partire dalla decolonizzazione con una brusca crescita negli ultimi anni. Perché ritiene che la comunità internazionale se ne stia interessando adesso in particolare?
Probabilmente per i numeri, perché quella a cui stiamo assistendo è una vera e propria catastrofe umanitaria. Questo ha messo sotto gli occhi di tutti la gravità del contesto e del momento. Non riesco a trasmettere quello che ho vissuto in quei giorni, perché è qualcosa di veramente drammatico.
A fronte di ciò che ha visto, cosa ritiene che dovrebbe fare la comunità internazionale e cosa progetta di fare la Croce Rossa italiana?
La Croce Rossa italiana sta intervenendo con medici, infermieri e con cliniche mobili. Partecipiamo anche alla gestione dell’ospedale da campo, un ospedale da 100 letti, creato dalla Federazione internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, assieme a tutte le consorelle. Il problema è l’accesso, anche per queste cliniche mobili, che non sono le solite jeep, ma persone armate di zainetto che camminano per raggiungere quanto più possibili angoli di questo campo sconfinato.
Per la Croce Rossa italiana l’importante è l’aspetto umanitario. Quello che salta agli occhi è la lentezza con cui la comunità internazionale agisce. Mentre si fa diplomazia e si cerca di comprendere la dinamica di alcuni eventi, ci sono persone che in quei momenti soffrono la fame, l’abbandono, la mancanza di servizi igienici. Serve alimentare la capacità di risposta e la preparazione a questo tipo di flussi. I movimenti di persone in questi ultimi anni stanno aumentando, anche se con l’intensità vista nel caso dei Rohingya fortunatamente non è così comune. Sul movimento di popolazioni dobbiamo avere una riflessione a livello internazionale perché non avviene soltanto qui in Asia ma anche in Africa, ad esempio nel lago Ciad, dove decine di migliaia di persone sono sfollate. C’è una necessità di risposte che deve essere affrontato. Bisogna decisamente superare i limiti della politica.
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Una testimonianza così forte mette a nudo i ritardi della legge e l’impotenza degli incontri ufficiali che nulla possono in casi come quello del Bangladesh e dei Rohingya, dove le condizioni peggiorano a vista d’occhio ed un Paese solo e debole non riesce a garantire un livello accettabile di accoglienza o di sicurezza. La comunità internazionale e l’opinione pubblica sono giustamente indignate nei confronti delle scelte politiche e strategiche del Myanmar, ma ancora troppo poco viene fatto, nella pratica, per migliorare le condizioni effettive di questa popolazione.
Foto di copertina di Matteo Micucci/Croce Rossa italiana