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Elezioni presidenziali

Kirghizistan: l’anomalia dell’Asia centrale fra Russia e Cina

31 Ott 2017 - Simone Zoppellaro - Simone Zoppellaro

Con l’elezione del nuovo presidente Sooronbai Jeenbekov, il 15 ottobre scorso, la repubblica del Kirghizistan ha realizzato quello che altrove in Asia centrale sembra un miraggio, ovvero un avvicendamento ai vertici di potere. Il piccolo Paese – appena sei milioni di abitanti – ha eletto al primo turno e a larga maggioranza il suo quarto presidente dall’indipendenza dall’Unione sovietica. Un’eccezione che si fa notare, su più larga scala, anche in quella parte del mondo post-sovietico che orbita tuttora attorno a Mosca, e questo nonostante la povertà diffusa, la corruzione imperante, e tutti i limiti evidenti del recente e fragile sviluppo del sistema politico ed economico kirghiso.

Altro dato notevole, in quest’ultima consultazione, è che si è trattato del primo passaggio di potere pacifico, dopo che i primi due presidenti – Askar Akayev e Kurmanbek Bakiyev, rispettivamente nel 2005 e nel 2010 -, erano stati rovesciati da tumulti popolari. In particolare, come il secondo è costato la vita di centinaia di persone, nei disordini avvenuti prima e dopo la deposizione del presidente. Un segno importante, che potrebbe porre le basi per una futura democratizzazione e stabilizzazione del Paese centroasiatico.

Atambayev dietro Jeenbekov
Eppure, Jeenbekov non è certo un volto nuovo della politica kirghisa. Prima della recente elezione a presidente era già stato designato primo ministro nel marzo 2016, carica cui ha rinunciato dopo la candidatura alla prima carica dello Stato, e in precedenza era stato ministro dell’Agricoltura e governatore della regione meridionale di Osh, dove risiede fra l’altro una minoranza uzbeka che è stata vittima nel 2010 di violenze e massacri dopo la deposizione di Bakiyev. Delfino designato dal suo predecessore Almazbek Atambayev, al potere dal 2011, Jeenbekov ha sconfitto a sorpresa al primo turno con il 55% dei voti l’oligarca del petrolio Omurbek Babanov, attestatosi al 35%, con venti punti percentuali di distacco dal vincitore. Assai magro, invece, il bottino degli altri nove candidati che hanno preso parte al voto.

Si è trattato della prima consultazione presidenziale dopo la riforma costituzionale del 2010. Questa ha posto come limite massimo un termine di sei anni per il mandato del presidente della Repubblica, limitandone i poteri. Un’ulteriore riforma, lo scorso anno, ha promosso ulteriormente un rafforzamento della figura del primo ministro a discapito del capo dello Stato. Una mossa che molti critici hanno letto come un tentativo di Atambayev di perpetuare il suo potere con l’espediente di un suo futuro e ipotetico passaggio da presidente a primo ministro.

Ciò che è certo è che Atambayev è oggi visto da molti come il burattinaio della politica kirghisa, l’uomo ombra dietro al suo successore Jeenbekov. Un ruolo che il neoeletto presidente, finora, non si è certo premurato di evitare. Nel suo discorso dopo la vittoria, Jeenbekov ha parlato dei “grandi risultati” dei sei anni di presidenza di Atambayev, prefiggendosi come obiettivo quello di “preservare quanto è stato raggiunto, e rafforzare quanto è stato iniziato”.

Distensione con il Kazakistan?
Un segno di discontinuità, almeno da un punto di vista retorico, si è avuto invece nei toni concilianti usati dal neoeletto presidente – che entrerà in carica a inizio dicembre – nei confronti delle crescenti tensioni con il Kazakistan. E questo nonostante il presidente kazako Nursultan Nazarbaev abbia appoggiato apertamente, nel corso della campagna elettorale in Kirghizistan, il maggiore rivale di Jeenbekov, il magnate Babanov. Ma è presto per dirlo, e in generale non si attendono grandi stravolgimenti nella linea politica adottata dal nuovo presidente.

Certo è che una distensione con il vicino kazako, assai più ricco e influente, appare una necessità imprescindibile non solo politica, ma anche economica per Bishkek. Pur essendo entrambi membri (insieme a Russia, Bielorussia e Armenia) della Comunità economica eurasiatica guidata da Mosca, continuano a crescere le tensioni, con ripercussioni anche sul transito di merci alla frontiera fra i due Paesi. Il Kirghizistan, che confina con la Cina, ha bisogno di un passaggio proprio dal Kazakistan per poter raggiungere la Russia, e anche per questo l’adesione kirghisa al progetto economico e politico voluto da Putin ha dato fino ad ora ben pochi frutti.

Il ruolo di Mosca
Un progetto, quello eurasiatico, creato da Mosca anche con l’intento di consolidare e rafforzare la sua presenza politica e economica in un’area di assoluta priorità strategica e energetica come l’Asia centrale, dove l’avanzata cinese minaccia di rimettere in discussione un’egemonia che dura ininterrotta dal XIX secolo.

Due attori che, pur nella diversità di visioni e approcci, non hanno certo giovato allo sviluppo democratico della regione nel suo insieme, che a oltre un quarto di secolo dalla dissoluzione dell’Urss appare ancora oggi segnata da una serie invariabile di autocrazie, senza alcun ricambio ai vertici di potere. Un panorama analogo contraddistingue, fra l’altro, anche la già citata Comunità economica eurasiatica, con la parziale eccezione dell’Armenia.

Ed ecco allora, se vista da questa prospettiva, che l’eccezione kirghisa riveste oggi particolare importanza nel panorama post-sovietico. Se è presto per parlare di una democratizzazione compiuta, e ancor più azzardato pensare che il Kirghizistan possa rappresentare, al momento, un modello politico e istituzionale capace di muovere gli equilibri della regione, non si può d’altra parte negare, almeno in termini comparativi, come queste elezioni rappresentino finora uno dei maggiori successi conseguiti nella lunga via della democratizzazione della regione.

Foto di copertina © Roman Gainanov/Xinhua via ZUMA Wire