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La seconda volta

Kenya: elezioni, Kenyatta senza rivali, possibile crisi

23 Ott 2017 - Francesca Caruso - Francesca Caruso

Elezioni a tutti i costi” versus “riforme prima ed elezioni dopo”. A quattro giorno dal voto che dovrebbe confermare l’attuale presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, a un secondo mandato, il Paese rischia di piombare in una crisi politica e costituzionale senza precedenti. “I toni del dibattito politico sono sempre più violenti e la maggior parte dei kenioti in questo momento ha paura: tutti sanno che se giovedì si terranno le elezioni ci saranno delle proteste e dei morti”, spiega James, un tassista di 60 anni che vive nella città costiera di Malindi, a Affarinternazionali.it. “Stanno tutti implorando Kenyatta di cambiare il giorno del voto – continua James -, ma il governo ha detto che le elezioni ci saranno senza sé e senza ma”. Non solo: la settimana scorsa, in una dichiarazione ufficiale, Kenyatta ha dichiarato che “chiunque cercherà di impedire lo svolgimento dello scrutinio e di attaccare gli agenti della commissione elettorale sarà punito duramente”.

La decisione di tornare alle urne e i retroscena
Il 26 ottobre, per la seconda volta in tre mesi, i kenioti della Rift Valley, Mombasa, Malindi, Nairobi o Kisumu, dovrebbero recarsi alle urne: il primo settembre, con una decisione senza precedenti nella storia di tutta l’Africa, la Corte Suprema del Paese ha annullato i risultati elettorali dello scrutinio dell’8 agosto, che si erano svolti in maniera relativamente pacifica. Secondo quei risultati, che la Corte Suprema ha definito “invalidi”, accusando come primo responsabile la stessa Commissione elettorale (Iebc), Kenyatta – eletto per la prima volta nel 2013 – aveva infatti ottenuto il 54 per cento dei voti rispetto al 44 per cento di Raila Odinga, suo storico rivale. In un Paese dove fino al 2002 c’è stato un presidente, Arap Moi, che ha governato per più di vent’anni, la decisione della Corte Suprema era stata vista come la dimostrazione che in Kenya si stava via via consolidando una vera e propria democrazia.

La realtà purtroppo è molto più complicata: il 10 ottobre, Raila Odinga, il principale oppositore del presidente Kenyatta, si è ritirato dalla corsa sostenendo che il prossimo scrutinio sarà peggio di quello di agosto. «Siamo arrivati alla conclusione che la Commissione elettorale non ha nessuna intenzione di cambiare né il suo personale né il suo modo di agire: in questo modo le ‘illegalità e le irregolarità’ che hanno portato all’annullamento del voto dell’8 agosto si ripresenteranno tali e quali”, si legge in un rapporto pubblicato dal suo partito Nasa (Super-alleanza nazionale).

Il ritiro di Odinga e le oscillazioni della Corte Suprema
Odinga, che si presentava come candidato alle elezioni presidenziali per la quarta volta, era convinto che, ritirandosi lui dalla campagna, il voto del 26 sarebbe stato annullato. Nella campagna elettorale del 2013, la Corte Suprema aveva infatti dichiarato che se nel caso in cui vi fossero solo due concorrenti e uno dei due si ritirasse, lo scrutinio andava annullato. Questa volta, però, la Corte Suprema non ha ribadito tale dichiarazione ed ha anzi autorizzato la partecipazione di altri candidati, nonostante questi non abbiano superato l’1 % nelle elezioni di agosto.

Inoltre, la settimana scorsa, il Parlamento ha approvato delle misure – che devono ancora essere firmate dal presidente – secondo cui, se uno dei due candidati si ritira, quello restante ha il diritto di essere nominato presidente, indipendentemente dal voto.

Ultimo dato: la Costituzione prevede che, in caso di annullamento di un risultato elettorale, il Paese ha 60 giorni di tempo per ripetere lo scrutinio – cosa che in questo caso corrisponderebbe al primo novembre -: nel caso in cui giovedì prossimo non si tenessero le elezioni, il Kenya potrebbe piombare in una crisi costituzionale senza precedenti, oltre che politica.

Uno scrutinio dalla credibilità a priori compromessa
Detto questo, gli ultimi avvenimenti hanno messo in discussione duramente la credibilità del prossimo scrutinio: il 18 ottobre, Roselyne Akombe, uno dei commissari della Commissione elettorale, si è dimessa ed è scappata negli Stati Uniti. “La Commissione è assediata ed è diventata parte integrante della crisi”, ha scritto sul suo account Twitter. Come se non bastasse, il giorno dopo, il capo della Iebc, Wafula Chebukati, ha dichiarato che la Commissione non sarà in grado “di garantire delle elezioni credibili”.

In un Paese dove ci sono più di 40 tribù, il dibattito politico continua ad articolarsi unicamente intorno all’appartenenza tribale. Kenyatta è infatti appoggiato dai Kikuyu, che oltre ad essere la sua tribù sono i più numerosi del Paese, dai Kalengeni e dai bianchi. I cosidetti ‘muzungu’ avrebbero, infatti, paura che Raila Odinga possa confiscare loro le terre o comportarsi come Idi Amin, l’ex presidente dell’Uganda, che nel 1972 espulse tutta la minoranza asiatica dal Paese, dandole un preavviso di 90 giorni.

“Kenyatta pensa solo ai kikuyu, che si trovano soprattutto al centro del Paese, lasciando tutti noi della costa senza niente”, spiega James a Affarinternazionali lamentandosi della situazione economica in cui versa la regione costiera. “Odinga invece, che è dei Luo, si occuperebbe anche di noi, dei poveri, lotterebbe contro la corruzione e garantirebbe la libertà di espressione”. Nel 2016, secondo Freedom House, il governo avrebbe limitato la libertà di espressione aumentando gli arresti di giornalisti e blogger e avrebbe accresciuto il potere della polizia. Freedom House sostiene infatti che gli attacchi terroristici sarebbero diminuiti anche grazie ad un utilizzo maggiore di metodi violenti da parte della polizia: rispetto al 2015, le vittime della polizia sarebbero aumentate del 7 %.