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Incudine e martello

Iran: alla prova curda tra Stati Uniti e Arabia Saudita

19 Ott 2017 - Emanuele Bobbio - Emanuele Bobbio

Il referendum curdo del 25 settembre ha portato grande scompiglio in una Regione che da anni vive una costante instabilità. Le potenze mediorientali sono state spiazzate da questo evento e quella che più di tutte ha visto i suoi piani messi a rischio è probabilmente la Repubblica islamica dell’ Iran.

Teheran negli anni è riuscita a guadagnarsi una stabile influenza nell’area attraverso Hezbollah in Libano, forze lealiste siriane, milizie sciite in Iraq e le sue forze Quds che guidano la proiezione iraniana nella Regione. I curdi, in particolare gli iracheni del Puk, Unione Patriottica del Kurdistan, non hanno mai rappresentato un pericolo per i progetti di Hassan Rohani; anzi, sono spesso stati un partner affidabile attraverso cui poter influenzare la politica irachena. Tutto questo nonostante negli ultimi anni Masoud Barzani abbia sempre guardato più verso la Turchia e gli Usa che verso l’Iran.

Teheran tra influenza e preoccupazione
Il referendum ha comportato grandi problematiche per Teheran, che vede con preoccupazione questo risultato per due ragioni principali. La prima è la minaccia di contagio che l’idea d’indipendenza può suscitare nelle regioni curde dell’ Iran, in cui vi è il rischio di tornare alla situazione di guerra civile che negli Anni Ottanta devastò il Nord-Ovest iraniano; la seconda riguarda invece la possibile secessione del Kurdistan iracheno da Baghdad, che per Teheran significherebbe perdere una parte della sua influenza sul governo iracheno, oggi garantita dal Puk, e dalle forze sciite del Sud, in particolare le Popular Mobilization Forces.

Ad appesantire questo quadro è sopraggiunta l’ostilità dell’Amministrazione Trump, che pochi giorni fa si è rifiutata di certificare il rispetto dell’accordo sul nucleare da parte iraniana e ha inoltre definito il governo di Teheran come il principale sponsor del terrorismo islamico. Allo stesso tempo va analizzata anche la sfida dell’Arabia Saudita, che sta cercando di estendere la propria influenza in Iraq per frammentare il saldo blocco sciita filo-iraniano

La minaccia indipendentista in Iran
A poche ore dai risultati del referendum, una commissione speciale del Parlamento iraniano si è riunita per affrontare le conseguenze di questo voto. Alla presenza del ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, dei rappresentanti del Consiglio supremo e delle Guardie rivoluzionarie, l’Assemblea ha votato una risoluzione che non riconosceva il referendum in Kurdistan e condannava ogni minaccia all’integrità territoriale irachena.

Mentre le forze militari iraniane di stanza nel Nord-Ovest sono state messe in preallarme e l’aviazione iraniana ha formato, insieme a quella irachena, uno spazio aereo controllato sul Kurdistan, numerose manifestazioni sono nate spontaneamente nelle storiche città curde dell’Iran. La folla ha gridato slogan in memoria di Qassemlou, storico segretario del partito curdo iraniano assassinato da agenti di Teheran nel 1989 a Vienna, e ha protestato davanti ai palazzi del potere locale.

Memori di ciò che accadde durante la guerra civile degli Anni Ottanta, le forze di sicurezza hanno contenuto i manifestanti utilizzando esclusivamente mezzi pacifici. La situazione ha creato apprensione ai piani alti del potere iraniano, preoccupato di vedere anni di negoziati per avvicinare i curdi iraniani andare in fumo in poche ore. La minaccia dopo qualche giorno è rientrata, ma Rohani – e la guida suprema Ali Khamenei – sono consci di doversi muovere attentamente per non aprire una frattura che torni utile ai nemici dell’Iran per colpire la stabilità del Paese.

La minaccia americana e saudita
Anche Washington ha visto il plebiscito curdo a favore dell’indipendenza come una minaccia e per qualche giorno Usa e Iran hanno lavorato in modo concorde per cercare di ricucire la situazione. Questa cooperazione è stata però spazzata via dai tweet e dalle parole del presidente Trump a proposito dell’accordo sul nucleare.

Il governo di Teheran, proprio alla luce di questi sviluppi, ha ancora di più irrigidito la propria posizione, non nutrendo alcuna fiducia nei confronti dell’Amministrazione statunitense. Dai ministri di Rohani, inoltre, filtra il sospetto che la decisione di Barzani di indire il referendum sia parte di un piano di Trump per creare scompiglio in un’area in cui gli Usa ultimamente non riescono più ad essere incisivi come in passato.

In questa situazione diventa centrale il ruolo del primo ministro iracheno Haider Al-Abadi, che negli ultimi anni ha posto in qualche modo un limite all’influenza che l’ Iran esercita sul governo di Baghdad. Gli Stati Uniti sono consci del fatto che Teheran non voglia sostenere il risultato del referendum, ma, allo stesso tempo, temono la minaccia indipendentista, che potrebbe scalfire il potere di Al-Abadi e consegnare il Paese nelle mani delle forze pro-iraniane delle Popular Mobilization Forces, ormai diventate protagoniste centrali nel Paese dopo la guerra all’Isis.

Anche l’Arabia Saudita del nuovo principe ereditario Moḥammad bin Salman si sta muovendo per entrare nella partita a scacchi tra Iran e Stati Uniti, a partire da una mossa che nei mesi passati ha sorpreso molti dei possibili osservatori. Riad ha, infatti, aperto canali di comunicazione con il religioso sciita Moqtada Al Sadr, che in Iraq resta una figura fondamentale con un enorme peso popolare. L’imam ha anche visitato l’Arabia Saudita e, nonostante non si sappia quale tipo di relazione si sia venuta a creare, questo solo fatto ha creato grande apprensione tra i vertici iraniani. A questo punto, Teheran non può assolutamente rischiare una secessione curda dall’Iraq.

Dopo la mossa saudita i vertici iraniani non possono più fare affidamento esclusivo sulle città del sud dell’Iraq per difendere il proprio ruolo nel Paese, specialmente nell’eventualità che Moqtada al Sadr si avvicini troppo ai sauditi, dividendo gli sciiti iracheni e limitando il peso iraniano in un Paese in cui, fino a pochi mesi prima, l’Iran era quasi egemone.