I dilemmi di Washington in Siria, tra russi, curdi, turchi
Lontano dai riflettori della stampa occidentale, un preoccupante confronto fra Stati Uniti e Russia si sta consumando in Siria, nella provincia orientale di Deir ez-Zor tagliata in due dall’Eufrate, una delle ultime roccaforti del sedicente Stato islamico, l’Isis.
All’inizio di settembre, forze leali al presidente siriano Bashar al-Assad hanno raggiunto il capoluogo dell’omonima provincia da ovest, rompendo – grazie al sostegno determinante delle forze speciali russe e dell’aviazione di Mosca – l’assedio dell’Isis ai quartieri rimasti fedeli al regime.
A loro volta le Forze Democratiche Siriane (Fds), milizie a maggioranza curda sostenute da forze americane aeree e di terra, si sono dirette verso Deir ez-Zor da nordest, lasciandosi alle spalle la battaglia tuttora in corso di Raqqa, capitale siriana dello Stato islamico.
Tensioni sull’Eufrate
Le Fds e le forze leali a Damasco sono ora separate solo dall’Eufrate, ma le seconde hanno attraversato il fiume a sud di Deir ez-Zor e già si sono verificati incidenti, con accuse reciproche scambiate tra i due fronti.
Malgrado le apparenze di dialogo fra Mosca e Washington in Siria, questo confronto rinnova la contrapposizione strategica fra le due potenze nel Paese mediorientale. Sebbene ufficialmente entrambi gli schieramenti affermino di voler sottrarre territori all’Isis, è evidente che essi sono in competizione per aggiudicarsi la maggior porzione possibile della provincia al confine con l’Iraq.
La vera posta in gioco sembrano essere i pozzi petroliferi a est della città di Deir ez-Zor, fra i più importanti del Paese. Mosca vorrebbe controllarli perché aiuterebbero a finanziare la ricostruzione della Siria sotto il governo di Assad. A Washington sarebbero utili per sostenere economicamente il progetto di autonomia del Rojava, nome con cui i curdi designano il Kurdistan siriano e, per estensione, l’entità federale che essi hanno istituito nei territori da essi controllati.

L’alleanza curdo-americana
Estromessi dai giochi politici nella Siria occidentale, ed emarginati nei negoziati che vedono protagonisti Russia, Turchia e Iran, gli Stati Uniti appaiono intenzionati a mantenere una propria influenza (e una propria presenza militare) nella parte orientale del Paese, non solo per sconfiggere l’Isis, ma a garanzia dell’autonomia curda.
Quest’ultima rappresenta al momento un progetto non apertamente indipendentista, a differenza di quello del vicino Kurdistan iracheno, i cui cittadini si sono espressi a favore della creazione di uno Stato autonomo nel referendum dello scorso 25 settembre. Vi è peraltro una frattura ideologica fra i curdi iracheni guidati da Massoud Barzani e il Partito dell’Unione Democratica (Pyd) dominante nel Rojava, il quale ha invece forti legami con i curdi turchi del Partito del Lavoratori del Kurdistan (Pkk).
La presenza militare americana dovrebbe permettere a Washington non solo di sostenere le rivendicazioni dei curdi siriani al tavolo negoziale, ma di contenere l’espansione militare russa, spezzando allo stesso tempo il cosiddetto ‘arco sciita’ che l’Iran intenderebbe costituire dalle sponde del Golfo Persico al Libano, grazie al governo di Baghdad, al regime alawita di Damasco, alle milizie sciite presenti in entrambi i Paesi e al partito libanese di Hezbollah.
Tale arco, qualora si consolidasse, diverrebbe un progetto ideologico e geopolitico, ma anche infrastrutturale, stabilendo rotte energetiche e commerciali dall’Iran al Mediterraneo attraverso Iraq e Siria.
I limiti delle aspirazioni curde
Il progetto del Rojava presenta tuttavia numerose debolezze. Esso ha inglobato estesi territori a maggioranza araba, ostili al predominio curdo. Fra Raqqa e Deir ez-Zor, inoltre, il crollo dell’Isis potrebbe preludere a una sanguinosa resa dei conti fra le tribù arabe, che porterebbe nuova instabilità.
Nella misura in cui si espande, il Rojava accresce poi l’ostilità di Mosca e Damasco nei suoi confronti. Con questi due attori, i curdi siriani potrebbero dovere scendere a patti sia per ragioni economiche sia per l’esigenza di tutelarsi contro il nemico turco a nord.
La Russia, in particolare, rappresenta l’unico baluardo contro un possibile attacco militare turco ad Afrin, enclave curda occidentale separata dal resto del Rojava.
Washington stessa si trova di fronte a un dilemma nei confronti del proprio alleato turco. Più accresce il proprio sostegno ai curdi siriani, più compromette il rapporto con Ankara già deterioratosi negli ultimi anni, in particolare dopo il tentato golpe del luglio 2016 condotto – secondo il governo turco – da seguaci del predicatore Fethullah Gulen residente in territorio americano.
L’unico modo per ricucire le relazioni con la Turchia – sostengono alcuni analisti statunitensi – sarebbe un’offensiva militare congiunta contro la leadership del Pkk annidata nei monti Qandil del vicino Kurdistan iracheno, anche allo scopo di spezzare il legame tra Pkk e Pyd siriano. Ma è proprio una simile eventualità a rendere i curdi siriani incerti sulla piena lealtà di Washington nei loro confronti, e a spingerli a cercare possibili alternative.
Impasse strategica
Il referendum indipendentista dei curdi iracheni ha poi creato un nuovo grattacapo per Washington nel vicino Iraq, perché indebolisce il primo ministro sciita Haider al-Abadi, uno dei pochi alleati su cui gli Stati Uniti possono contare a Baghdad per contrastare l’influenza iraniana nel Paese.
In generale, il problema di Washington è che i propri partner regionali – curdi siriani e iracheni, Turchia, governo di Baghdad – sono in reciproca competizione tra di loro, oltre che spesso non allineati con gli interessi americani. Inoltre la disfatta militare dell’Isis non significa necessariamente la sua sconfitta politica e ideologica.
Le opzioni a disposizione degli Stati Uniti appaiono poche e confuse. La volontà di contrastare sia l’influenza russa che quella iraniana tende inevitabilmente a rafforzare l’asse tra Mosca e Teheran. Alla luce dell’intenzione del presidente Trump di inasprire la pressione nei confronti dell’Iran, e in assenza di una coerente strategia diplomatica americana nella regione, le tensioni a cavallo tra Siria e Iraq potrebbero riacutizzarsi, sprofondando ancora di più Washington nella sua pericolosa impasse strategica.