Democrazia eterodiretta e ricerca d’una classe dirigente
Dal 23 settembre, da circa un mese, è ufficiale il nome del candidato premier che guiderà il Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni politiche: il ‘campione’, Luigi Di Maio , è stato designato con una votazione online che ha coinvolto circa il 20% degli iscritti. Meno di 40.000 persone hanno eletto, tramite una piattaforma privata, il leader del partito che si è affermato sulla scena politica italiana in nome della democrazia diretta e della lotta all’opacità istituzionale; e che si fa vanto di un tasso di partecipazione popolare di gran lunga superiore ai partiti tradizionali come il Partito Democratico (Pd), il principale partito di governo, che alle primarie del maggio 2017 (svoltesi presso seggi elettorali e con contributo obbligatorio di due euro) ha registrato quasi due milioni di votanti.
La contraddizione è lampante ma non stupefacente. La campagna referendaria per la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione europea, dove le frange più conservatrici del mondo politico e imprenditoriale britannico hanno convogliato il disagio socio-economico delle fasce più deboli della popolazione verso quella che si va sempre più concretizzando come una svolta iperliberista, e le elezioni presidenziali Usa, in cui un controverso miliardario erede di uno dei più noti immobiliaristi di New York si è affermato sulla rivale democratica ergendosi a paladino dei populares e dichiarando guerra all’establishment, sono eloquenti affreschi dell’ampiezza e della profondità del fenomeno che potremmo chiamare ‘democrazia eterodiretta‘.
Per comprenderne la natura, però, non è necessario elaborare nessun nuovo modello. E’ sufficiente riprendere in mano quello classico.
La politica della rabbia e l’aumento scontato del tasso di demagogia
Come osserva l’economista Dani Rodrik, sin dalla fine degli Anni Novanta non era difficile prevedere un aumento del tasso di demagogia sulla scena politica occidentale: l’unico aspetto sconcertante è lo stupore che ha suscitato in larga parte della classe dirigente. L’ondata di globalizzazione ha ampliato drammaticamente i già pericolosi squilibri che si andavano delineando nelle economie più avanzate sin dagli Anni Settanta, replicando uno schema già manifestatosi all’avvento delle ondate precedenti.
Agli albori del Gold Standard, all’inizio del XX Secolo, le forze politiche tradizionali si spesero così alacremente in campo internazionale e sovranazionale, si appiattirono così acriticamente sulla prospettiva del progresso a ogni costo propugnata dai grandi attori economici, da trascurare quasi del tutto i capisaldi del paradigma che assicurava l’armonia sociale all’interno delle proprie Nazioni: le politiche redistributive e la tutela delle guarentigie costituzionali garantite dalla cittadinanza.
L’errore strategico risultò fatale alla classe dirigente liberale di inizio secolo e mise a disposizione dell’ideologia comunista e di quella fascista terreno fertile in cui proliferare. A circa un secolo di distanza la dinamica si ripete.
Le principali forze politiche, tacciate sprezzantemente dai populares di globalismo, hanno chiuso gli occhi per oltre vent’anni sull’aumento delle disuguaglianze economiche e dell’emarginazione sociale, sulla crescente difficoltà degli ordinamenti costituzionali nazionali a tutelare i diritti e le libertà di tutti i cittadini, confidando nella capacità dei grandi conglomerati multinazionali di accelerare la corsa verso un non meglio precisato futuro in cui equità e progresso procederanno di pari passo.
Mentre i colossi dell’high tech si preparano all’era delle macchine intelligenti e alla corsa allo spazio, mentre l’industria farmaceutica mette a segno i primi grandi successi nella lotta al cancro e la biotecnologia si protende verso dimensioni fantascientifiche, decine di milioni di persone continuano a lottare nelle opulente democrazie occidentali per l’accesso ai servizi essenziali o a cure mediche specialistiche, per un reddito dignitoso o per il riconoscimento di diritti fondamentali.
Come un secolo fa, la classe dirigente dimentica il potere di persuasione che i bisogni materiali sono in grado di esercitare sugli esseri umani, mettendo ancora una volta a repentaglio il fragile equilibrio su cui si reggono le grandi democrazie occidentali sin dagli albori della società di massa, in nome di un pragmatismo ingenuo e utopico.
Dalla rivoluzione a un’élite, la prova del nove della classe dirigente
Una volta chiarita la natura dell’onda che monta non è difficile spiegarne le idiosincrasie. Il nuovo populismo si nutre dell’inerzia dell’attuale classe politica, trae vigore dalla crisi delle identità nazionali e dall’aumento delle diseguaglianze, indirizza l’insicurezza e l’inquietudine sociale verso un bersaglio chiaro e alla portata di tutti. Tuttavia, ogni proposta di cambiamento radicale dell’ordine sociopolitico si qualifica nel momento in cui viene chiamata a esprimere un’élite, una classe dirigente.
Se riesce a esprimerla, si trasforma in una rivoluzione e, seppur sconfitta, lascerà il segno nella Storia della comunità che investe. Se non ci riesce, rimane una jacquerie e andrà incontro a un’inevitabile disfatta che non lascerà alcuna traccia nella memoria collettiva.
La natura post-ideologica e post-politica del populismo 2.0, la retorica violenta e divisiva dei suoi leader, la vacua intransigenza dei suoi programmi di governo impediscono la formazione di una classe dirigente interna e ostacolano l’assimilazione di una classe dirigente esterna. Di conseguenza, nel corso della loro scalata al potere le forze politiche populiste sono costrette a cooptare élites di cui non condividono il sistema valoriale e gli obiettivi finali, sulla sola base di comuni interessi contingenti.
Il confronto tra le élites e la base elettorale, che nei partiti tradizionali avviene in larga parte pubblicamente, nei partiti populisti avviene perciò prevalentemente dietro le quinte, senza nessuna trasparenza e con reciproca diffidenza. Ciascuno dei contraenti vede nelle altre parti un taxi con cui raggiungere i propri scopi, piuttosto che alleati con cui vincere una serie di battaglie.
La composizione dell’Amministrazione Trump è un eloquente affresco di questa dinamica.
E anche i partiti populisti europei, che ancora conservano la purezza originaria in ragione degli insuccessi elettorali, al progredire delle responsabilità di governo non potranno fare altrimenti.