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Il Congresso del Pcc a Pechino

Cina: Xi Jinping si tiene stretto il suo Sogno

18 Ott 2017 - Lorenzo Mariani, Giulia Giannasi - Lorenzo Mariani, Giulia Giannasi

Dal 18 al 24 ottobre Pechino ospiterà il diciannovesimo Congresso nazionale del Partito comunista cinese, evento di massima rilevanza nella vita politica del Paese. A piazza Tiananmen, nella Grande sala del popolo, si riuniranno i 2280 delegati del partito che saranno chiamati, nel corso della settimana, ad eleggere il nuovo Comitato centrale, revisionare lo Statuto e definire la futura strategia che guiderà la Cina per il prossimo quinquennio. Nonostante i sostanziosi cambiamenti al vertice – specialmente nella composizione del politburo – l’attenzione sarà con ogni probabilità monopolizzata dal presidente Xi Jinping, che all’alba del suo secondo (ed in teoria ultimo) mandato, si ritrova in una posizione di forza unica nella storia moderna del Paese.

Nel corso degli ultimi cinque anni Xi ha dimostrato al partito di essere l’uomo giusto al momento giusto, riuscendo a sbloccare l’impasse burocratica che aveva frenato le riforme durante la presidenza del predecessore, Hu Jintao, e rendendosi promotore di una nuova idea di Cina, sia in ambito nazionale che internazionale.

E ora che si avvicina la scadenza del 2020 – anno entro cui l’establishment cinese aveva promesso di realizzare una “società moderatamente prospera” – Xi Jinping rilancia promettendo, col suo “Sogno cinese“, di far diventare la Cina un Paese sviluppato entro il 2049, per il centenario della fondazione della Repubblica Popolare.

Nonostante i problemi da affrontare rimangano ancora molti, soprattutto in ambito economico, la strategia di Xi è stata enormemente apprezzata dal partito.

Ovviamente il prezzo del rilancio politico del Paese è stato alto, e a pagarne le conseguenze sono stati soprattutto i quadri di partito, colpiti dalla campagna anti-corruzione iniziata nel 2013. Se da una parte l’epurazione di circa un milione e trecentomila funzionari di alto e basso rango (“tigri e mosche”) è servita a ripulire il partito dai cattivi elementi, dall’altra ha permesso a Xi di liberarsi dei quadri appartenenti alle fazioni concorrenti degli ex presidenti Hu Jintao e Jiang Zemin, e di facilitare il suo lento ma graduale accentramento di potere. Dopo essere stato rivestito del titolo di “Nucleo” del partito, a ottobre dell’anno scorso, Xi si prepara oggi ad entrare nel pantheon dei grandi pensatori del socialismo cinese. Sabato scorso la Commissione centrale ha ufficializzato la decisione di  inserire il “pensiero” del segretario generale nello Statuto del partito, atto puramente simbolico che tuttavia eleva la figura di Xi alla stregua di Mao Zedong e Deng Xiaoping.

Se la leadership di Xi appare indiscussa, la composizione del politburo che emergerà dal Congresso potrebbe comunque riservare delle sorprese: non solo per la possibile influenza delle diverse fazioni che animano il partito, ma anche perché la futura formazione potrebbe essere il risultato di una rottura con alcune norme che regolano il processo di selezione dei vertici. 

Il rimpasto ai vertici
Anche se formalmente non esistono limiti d’età, né di mandato, che regolano il ricambio ai vertici del partito, nel corso degli ultimi decenni sono andate consolidandosi alcune prassi che ormai sono considerate vere e proprie norme: tra queste, il limite di età (68 anni) per essere promossi o rieletti nel Comitato permanente, e il limite di due mandati per il titolo di segretario generale, la più alta carica del partito.

Quest’anno, cinque tra i sette membri del Comitato permanente del politburo dovranno lasciare l’incarico per sopraggiunto limite d’età. Tra questi c’è Wang Qishan, fedelissimo di Xi e “Zar” della Commissione centrale per l’ispezione disciplinare che ha guidato la draconiana campagna anti-corruzione voluta dal presidente. Se la prassi non verrà rispettata, quasi certamente sarà per permettere a Wang di tenere il suo posto all’interno del Comitato permanente.

Il problema della successione
Dei cinque seggi vacanti nel Comitato permanente del politburo, ci si aspetta che due vengano assegnati a candidati significativamente più giovani, che non hanno mai occupato un posto al suo interno: convenzionalmente, dei successori in pectore che nel 2022 correranno rispettivamente per le cariche di segretario del partito e premier. Una consuetudine, questa, che serve a rispettare il principio di alternanza tra le varie “generazioni” di leader, e che finora – almeno a livello locale – sembra essere stata rispettata: attualmente appartiene alla sesta generazione (quella dei nati dopo il 1960) circa l’80% dei funzionari provinciali di partito.

Fino a un mese fa, i nomi in lizza per la posizione di futuro successore di Xi erano quelli di Sun Zhengcai e Hu Chunhua. Questo prima dell’epurazione di Sun, che a settembre è stato espulso dal partito e deposto dall’incarico di segretario della municipalità di Chongqing per “gravi violazioni disciplinari”. Ad ereditarne lo status di possibile erede del presidente è stato Chen Min’er, protetto di Xi: la sua promozione, così inaspettata e a pochi giorni dal Congresso, da un lato indebolisce la posizione di Hu Chunhua, protégé dell’ex presidente Hu Jintao, dall’altro appare come una manovra politica ad hoc per permettere a Xi di designare un successore a lui vicino.

Lo scenario più plausibile, quindi, è la designazione di Chen a possibile “successore” di Xi, anche se si fa sempre più spazio l’idea che l’attuale presidente possa rompere con la tradizione e rimanere in carica per un terzo mandato.

Il destino delle riforme
Durante il Congresso, il partito emanerà anche un documento che riassuma i risultati raggiunti in questi ultimi cinque anni e fissi gli obiettivi del prossimo mandato. Tra i punti su cui si concentrerà l’attenzione, oltre alla definizione del rapporto Stato-partito, anche il ruolo del mercato e le eventuali deviazioni dagli obiettivi di crescita (fissati al 6.5% fino al 2020, anno del centenario della fondazione del Partito comunista cinese).

Una crescita ad un ritmo sostenuto presupporrebbe un ulteriore indebitamento pubblico, attualmente impossibile da sostenere: è possibile, quindi, che tra le righe del rapporto si leggano i presupposti per un rilassamento sugli obiettivi, ad esempio per quanto riguarda la qualità dello sviluppo economico.

Alcuni osservatori temono però che la politica cinese pecchi di lungimiranza su questo punto, e che la leadership non voglia affatto abbandonare gli obiettivi di crescita, anche a costo di aggirare quelle riforme, pur necessarie per l’economia, che possono ostacolarne il raggiungimento.

Xi non è il nuovo Mao
È chiaro che Xi si considera qualcosa di più che un semplice primus inter pares nella leadership del partito. Ma ogni manovra che gli ha permesso, durante il primo mandato, di accentrare il potere nelle sue mani, è comunque stata effettuata nell’ambito delle prassi consolidate, senza mai arrivare ad un vero e proprio punto di rottura. L’obiettivo di Xi Jinping non è lo smantellamento delle istituzioni o un ritorno agli eccessi maoisti, che porterebbero ad un inasprimento delle lotte intestine e minerebbero la legittimità del partito in un momento tanto cruciale per la Cina.

È quindi più ragionevole aspettarsi, per il prossimo mandato, un ulteriore accentramento del potere ai vertici che non comprometta il continuo processo di istituzionalizzazione.