Siria: negoziati; Iran, Russia e Turchia si danno le carte
Il 14 settembre si è svolta fra Iran, Russia e Turchia la sesta sessione del processo di negoziati di Astana sulla Siria. Dopo non poche difficoltà, trascinatesi durante l’estate, è emerso un accordo che stabilisce i compiti rispettivi dei tre governi nella gestione della zona di de-escalation della regione di Idlib. Secondo quanto riferisce un quotidiano filogovernativo turco, la Turchia e le opposizioni siriane in loco controllerebbero il nord-ovest della regione, in prossimità del confine siro-turco; le forze siriane e quelle coalizzate sotto la guida dell’Iran si schiererebbero nel sud-est; e quelle russe nell’area compresa fra le due precedenti.
Il governatorato di Idlib e le sue contraddizioni
Il governatorato di Idlib è dominato dalla coalizione jihadista di Hayat Tahrir al-Sham, erede del vecchio Jabath al-Nusra, che ha sconfitto e messo ai margini Ahrar al-Sham (un forte gruppo oggi legato al governo turco e alla galassia dell’Esercito libero siriano) e istituito in sostanza un emirato. Idlib è perciò un’area in cui la lotta al jihadismo/terrorismo compete con la riconciliazione fra i gruppi dell’opposizione e rende quest’ultima problematica.
Nell’estate si era parlato di un accordo per un intervento militare congiunto russo-irano-turco contro Tahrir al-Sham, ma Astana 6 non ha adottato questa scelta. La ragione è che tutti sono occupati altrove e l’unico membro del terzetto a subire i rischi di un vicino emirato jihadista è la Turchia, che però non è preoccupata di Idlib, bensì dei curdi, quindi del cantone di Afrin (sono corse voci di una replica dello Scudo dell’Eufrate verso quest’area), di Manbij, di al-Bab e di Raqqa, cui si aggiungono – in Iraq – il governatorato di Ninive e le iniziative indipendentistiche di Massud Barzani.
Il processo di Astana va a rilento
In realtà, il processo di Astana va a rilento e soffre delle contraddizioni che esistono fra gli interessi dei tre Paesi che lo guidano. La ripresa in mano da parte di Assad dell’area occidentale della Siria (sia pure con l’eccezione di Idlib) non è tanto dovuta alla stabilizzazione apportata da quel tanto finora realizzato nelle “de-escalation zones” create dal processo di Astana, quanto al fatto più generale che le opposizioni militari siriane sono state politicamente prevaricate e rese impotenti dal cambio di alleanze della Turchia, uno sviluppo che è stato poi completato dalla recente decisione del presidente Usa Donald Trump di metter fine ai programmi di assistenza della Cia.
Esistono localmente controversie e scontri fra le opposizioni che il terzetto di Astana riesce a contenere e regolare, ma grazie ad Ankara l’obiettivo russo di schierarle contro l’Isis, il sedicente Stato islamico, e non più contro Assad è sostanzialmente riuscito. Ed è per questo che, per quanto le “de-escalation zones” siano di fatto deboli e incomplete, le truppe di Assad sono ora in grado di dedicarsi alla riconquista della parte orientale della Siria. Ciò avviene con il vivo sostegno degli iraniani, che puntano a congiungersi con le forze sciite irachene e iraniane in Iraq, e senza nessun serio contrasto da parte degli Usa e delle opposizioni siriane che gli Usa del resto non appoggiano più. Gli Stati Uniti sono sostanzialmente usciti dalla partita siriana passando interamente e consapevolmente la mano ai russi.
Gli Usa fuori dalla Siria, due aree d’intesa
In questo momento in Siria si profilano, al di là delle alleanze formalmente in essere, due aree d’intesa. Un’area è costituita da Damasco e Teheran, ai quali in funzione essenzialmente anti-curda si tiene vicina la Turchia (nel solco di quella perenne ironia che è diventata la sua politica estera). L’altra area vede una convergenza fra Russia e Usa, le cui basi sono state probabilmente gettate nell’incontro fra Putin e Trump al G20; questo ha portato al “cessate-il-fuoco” nel Sud-Ovest della Siria (Quneitra, Daraa e Sweida) e al definitivo abbandono delle opposizioni siriane da parte Usa.
Trump, senza più le complessità di Barack Obama, persegue in Siria obbiettivi esclusivamente di controterrorismo. Che la sconfitta dell’Isis sia realizzata da Assad e dagli iraniani e che questi ultimi riempiano il vuoto: sarà Mosca a vedersela con loro. E – a quanto da tempo insistentemente si dice – i curdi siriani, una volta conquistata Raqqa, la rimetterebbero nelle mani di un consiglio municipale legato a Damasco, in cambio di un assetto autonomistico all’interno della Siria (con buona pace dei turchi). Dunque la politica Usa in Siria è di lasciare piena influenza sulla Siria alla Russia con l’onere di contemperare l’influenza dell’Iran, quella della Turchia e il destino dei curdi, in Siria e nell’insieme del Levante.
Non solo viene abbandonata la Siria e viene lasciato campo libero ai russi, ma si dissolve di fatto l’impegno anti-iraniano che Trump aveva fatto baluginare nella sua visita a Riad come integratore di una coalizione dei Paesi moderati e conservatori della regione (incluso Israele) contro l’espansionismo sciita. In Iraq, dove si consolida l’alleanza fra l’estremismo sciita iracheno e quello iraniano (al punto da preoccupare i sadristi e da portare il loro leader in visita a Riad), gli Usa continuano a sostenere il premier Abadi. Ma non esiste nessuna prospettiva di concreto contrasto americano alle pretese dell’estremismo sciita: probabilmente anche di questo si occuperanno i russi, tornando, dopo la Siria, anche in Iraq.
Le dimensioni geo-strategiche degli sviluppi siriani
Questi sviluppi hanno due dimensioni: una riguarda le relazioni internazionali globali e l’altra la sorte della Siria e della regione. L’evoluzione della politica estera americana verso la Russia fa, sia pur confusamente, pensare ad una visione strategica in cui il mondo si divide in tre grandi sfere di influenza fra Usa, Russia e Cina, e ciascun egemone è investito del compito di assicurare la stabilità della sua sfera. Così gli Usa si libererebbero di un fardello che non vogliono più (un passo nella direzione di Obama, ma ben oltre Obama). L’idea che la Russia e la Cina tolgano le castagne americane dal fuoco prospetta contropartite che restano da ben vedere. Ma qui non si intende approfondire questo aspetto, peraltro fondamentale per gli interessi e la sicurezza degli stati europei.
Per quanto riguarda la Siria, l’influenza russa sul Paese si è decisamente allargata e rafforzata istituendo una presenza durevole e una forte dipendenza. La Siria utile resterà certamente e saldamente nelle mani di Assad, ma l’obiettivo di una piena reintegrazione della Siria –pur ribadito molto esplicitamente ad Astana 6 – è come minimo lontano, comunque minato dalla forte presenza russa, da quella forse anche più invadente dell’Iran e da una indefinita transizione nell’area curda e nella miriade di poteri locali e funzionali (le milizie di Assad, quelle dell’opposizione, i consigli locali) che si sono resi necessarie e che continuano a sostenere le politiche di stabilizzazione di Damasco e dei suoi alleati.
Un processo altamente frammentato e quindi instabile, anche perché monta rapidamente all’orizzonte una nuova questione irachena che per la Siria potrebbe essere deleteria. L’Isis è sconfitto nella sua forma statale, ma gli sviluppi potrebbero facilmente riprodurre le frustrazioni che sono state alla base del suo successo e portare comunque ad un Isis non statale, ma non meno micidiale.
La Russia avrà molto da fare nella gestione di questa frammentazione. Prima o poi la differenza di obbiettivi strategici che esiste fra Mosca e Teheran (dove prevalgono i radicali) verrà al pettine: Mosca ha interesse a mantenere la sua alleanza con Teheran in Siria, ma non al punto che essa comprometta l’espansione del suo ruolo regionale verso i Paesi conservatori della regione e Israele. Ha interesse a mantenere anche la sua alleanza con la Turchia, ma la questione curda non sarà di facile soluzione e le non sopite pretese di ruolo regionale della Turchia potrebbero facilmente cozzare con il maggior interesse che la Russia ha per la Siria, l’Iraq e l’Iran e con gli interessi regionali russi, che fondamentalmente differiscono da quelli di Erdoğan.
In conclusione, la Siria sta andando verso un tipo di stabilizzazione che contiene parecchi germi di futura destabilizzazione. Il futuro resta molto oscuro. Anche quello dei protettori di Assad appare difficile. In questo scenario, appare ignoto ma senza dubbio pieno di gravi rischi anche il futuro di chi se ne sta lavando le mani e dei suoi alleati europei.