Onu: tra ambizioni di riforma e immobilismo
La 72a Assemblea generale delle Nazioni Unite è alle porte e le rappresentanze dei 193 Stati membri dell’ Onu già confluiscono verso New York, nel clima reso rovente dal confronto tra Corea del Nord e Stati Uniti.
Tutte le possibili soluzioni di natura diplomatica a questa crisi e tutte le sanzioni economiche finora comminate al regime di Kim Jong-Un passano dalle Nazioni Unite e, in modo più specifico, dal Consiglio di Sicurezza (CdS).
Il CdS dell’ Onu è una bestia strana: composto dalle cinque maggiori potenze al mondo, Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia, membri permanenti con diritto di veto, e da dieci Paesi eletti a rotazione (cinque l’anno) dall’Assemblea generale, è ben noto per la difficoltà nel giungere a decisioni e per lo scarso numero delle delibere realmente significative a livello geopolitico.
Inizialmente composto dalle cinque nazioni vincitrici della Seconda Guerra Mondiale (Usa, Urss, Cina, Gran Bretagna e Francia), dotate appunto del potere di veto, e da sei altri Stati a rotazione, ha visto, nel tempo, pochi cambiamenti rilevanti avvenire nella sua composizione, ampliatasi da 11 a 15 Stati negli Anni Sessanta, in risposta alla necessità di una maggior rappresentatività creata dalla decolonizzazione e dall’ingresso nell’ Onu di nuovi Stati. Nel 1971, la Repubblica Popolare Cinese ha preso il posto della Cina nazionalista, il cui governo è in esilio a Taiwan; negli Anni Novanta, la Russia ha preso il posto dell’Urss, dopo la dissoluzione di quest’ultima.
La riforma e le posizioni in campo
Con la fine della Guerra Fredda, l’inadeguatezza del funzionamento e della composizione del Consiglio di Sicurezza hanno finito per risultare sempre più chiare. E oggi virtualmente nessuno Stato al mondo è contrario a una riforma dell’istituzione.
I giocatori politici in campo hanno finito per coagularsi intorno a tre blocchi, con posizioni fortemente contrapposte. Da un lato vi sono i membri del G4: Giappone, India, Brasile e Germania, che s’appoggiano a vicenda nella richiesta di divenire membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.
L’importanza economica, politica e militare di questi Stati è andata aumentando, anche se non in modo costante, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Le loro richieste hanno trovato appoggio di varie forme e intensità, presso diversi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, con l’importante eccezione della Cina, tiepida sull’ingresso dell’India e nettamente contraria a quella del Giappone.
In contrapposizione alle attese di queste quattro grandi potenze regionali, una compagine di Stati ‘minori’, per iniziativa in particolare dell’Italia, fortemente contraria alle richieste del G4, ha creato un gruppo chiamato Uniting for Consensus, ribattezzato informalmente il ‘Coffee Club’.
Le tesi del Coffee Club vanno in direzione opposta a quelle del G4:L si propone un allargamento del numero di membri non permanenti, o a rotazione, del Consiglio di Sicurezza.
Molti Stati hanno partecipato alle iniziative di UfC: i membri considerati più importanti, oltre alla già citata Italia, sono il Pakistan, la Colombia, l’Egitto, il Canada e la Spagna, ma più di 120 nazioni (oltre il 60% delle nazioni al mondo) hanno preso parte almeno in un’occasione alle iniziative del gruppo, dimostrando come ci si possa aspettare dall’Assemblea generale un atteggiamento più propenso a un allargamento del CdS in senso più democratico, in contrapposizione a quello verticistico voluto dal G4.
Il terzo blocco è quello dell’Unione africana, che cerca di ottenere un allargamento a favore dei suoi Paesi sia per quanto riguarda il numero di membri permanenti (due) che quelli non permanenti.
Quali prospettive?
Ciascuno dei gruppi in gioco porta avanti posizioni difficilmente accettabili dagli altri attori internazionali. La proposta del G4, conferendo grandi poteri ad alcuni dei maggiori contributori dell’ Onu, aumenterebbe ulteriormente il divario fra stati di ‘serie A’ e di ‘serie B’, risultando quindi poco appetibile alla grande maggioranza dei piccoli Stati con diritto di voto nell’Assemblea generale.
Le posizioni del ‘Coffee Club’, al contrario, si basano su un’idea di democratizzazione dell’istituto: in alcune formulazioni si è arrivati a ventilare la rinuncia, parziale o totale, al diritto di veto da parte dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, posizione che non sarà mai accolta dalle grandi potenze.
Le richieste di maggiore potere da parte dell’Unione africana trovano una certa legittimazione nel fatto che il Continente Nero è il teatro della maggior parte degli interventi militari Onu. Ma l’incapacità di decidere a chi attribuire i seggi (Egitto?, Nigeria?, o Sudafrica?), oltre che la scarsa rilevanza politica ed economica degli Stati africani, rende queste richieste altrettanto irrealistiche che le precedenti.
Il Consiglio di Sicurezza è un’istituzione nata con un chiaro obiettivo: la creazione e il mantenimento di uno status quo che favorisse gli Stati vincitori della Seconda Guerra Mondiale. Questo obiettivo è stato chiaramente raggiunto, al punto che oramai possiamo considerarci prigionieri di questo stesso “ordine mondiale”.
L’unica via d’uscita da questa impasse geopolitica passa attraverso il riconoscimento dei cambiamenti che sono avvenuti sullo scacchiere internazionale negli ultimi settant’anni. Per quanto questi mutamenti possano essere lampanti, nessuno Stato pare però intenzionato a rinunciare ai propri privilegi, o a correre il rischio di lasciare più potere ai suoi competitors regionali e globali. Male ignoto si teme doppiamente; e l’immobilismo perdura.