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Settore minerario

Africa: diamanti, ricchezza e maledizione. Il caso Tanzania

27 Set 2017 - Francesca Caruso - Francesca Caruso

«Ogni volta che comprerete un diamante, con molte probabilità contribuirete al rifornimento di scuole, cliniche, strade o acqua potabile per una comunità povera del Botswana, del Sud Africa o della Namibia». Festus Mogae, ex presidente del Botswana, pronunciò questa frase nel 2008, ricevendo il premio Mo Ibrahim: Mogae sosteneva che i diamanti erano una vera e propria benedizione per il suo Paese e per tutta l’Africa. Si trattava solo di rinegoziare i contratti con le compagnie straniere che per troppi anni avevano goduto di incentivi formidabili.

Nove anni dopo, John Magufuli, presidente della Tanzania, ha preso il toro per le corna. Il 31 agosto ha ordinato il sequestro di un carico di diamanti dal valore di 30 milioni di dollari che la compagnia britannica Petra Diamonds stava esportando dall’aeroporto di Dar es Salaam. Non contento, dieci giorni dopo, il suo governo ha dichiarato che nazionalizzerà l’intero carico accusando la Petra di aver sotto-valutato il valore dei diamanti per pagare meno tasse.

«Nella sua documentazione la Petra Diamonds ha dichiarato che il valore dei diamanti era di 14,798 milioni di dollari, mentre una nostra commissione d’inchiesta ha stabilito che il vero valore è di 29,5 milioni di dollari», si legge in una dichiarazione ufficiale del ministro delle finanze. «La Tanzania potrebbe perdere più di 46 milioni di dollari l’anno con l’esportazione di diamanti sotto-valutati da questo aeroporto», ha continuato il ministro, in linea con la politica nazionalista di Magufuli. «Ragazzi, siamo circondati dalla ricchezza!», gridava il presidente in un comizio a luglio in un paesino al centro del Paese. «Dobbiamo alzarci e proteggerla. Non è possibile che altri vengano e ne beneficino truffandoci!».

Una storia di dolori e di sangue
Compagnie straniere a parte, la storia dei diamanti africani è tempestata di dolori al punto che, per alcuni, la loro scoperta è stata considerata una vera e propria maledizione. Tra gli Anni Ottanta e gli Anni Novanta, i diamanti africani erano chiamati «diamanti insanguinati», proprio perché finanziavano governi corrotti, cleptocrazie e gruppi di ribelli, provocando guerre civili sanguinarie che hanno ucciso e mutilato migliaia di persone e distrutto le economie dei Paesi coinvolti.

«Quando a New York i diamanti fanno bling bling in Africa fanno bling blang», diceva Leonardo di Caprio in Blood diamonds, film sulla guerra civile in Sierra Leone, che è durata dal 1991 al 2002. Ma se si considera il Botswana o la Namibia, dove i diamanti hanno effettivamente rivoluzionato la vita delle persone, le politiche nazionalistiche di Magufuli hanno perfettamente senso. Da quando hanno ottenuto l’indipendenza, sia il Botswana che la Namibia – che sono fra l’altro tra i primi produttori di diamanti al mondo – hanno utilizzato la rendita delle pietre per creare posti di lavoro e promuovere regimi democratici in grado di condurre politiche pacifiche fuori e dentro i propri confini. Per le Nazioni Unite, entrambi in Paesi sono considerati «Paesi con redditi medio-alti». E, come diceva Moegus: «In Botswana, diamanti più sviluppo uguale democrazia!».

Magufuli ‘il Bulldozer’ e il settore minerario
I diamanti non sono gli unici minerali finiti nel mirino di Magufuli, soprannominato ‘il Bulldozer’ per via della sua leadership di ferro: il suo nazionalismo economico sta colpendo tutto il settore minerario. A marzo, il suo governo ha aperto un contenzioso con la britannica Acacia, la più grande compagnia mineraria della Tanzania, che produce oro e rame, accusandola di non aver pagato le tasse per anni per un valore di circa 190 miliardi di dollari.

Non solo: il governo di Dodoma ha anche chiesto alla compagnia britannica di costruire una fonderia all’interno del Paese in modo tale che l’oro e il rame siano processati in loco creando così nuovi posti di lavoro. Inoltre, a luglio è stata approvata una legge che modifica profondamente la struttura legislativa e istituzionale che regola il settore minerario: d’ora in poi, il 16% – come minimo – di tutti i giacimenti saranno di proprietà dello Stato e le royalties sulle esportazioni di oro, rame, argento e platino sono passate dal 4 al 6%. La legge prevede anche che il governo ha il diritto di rinegoziare tutti i contratti e vieta la possibilità, alle compagnie straniere, di rifarsi ad arbitrati internazionali.

Queste politiche hanno già avuto i loro effetti sul futuro degli investimenti stranieri in Tanzania: la Petra Diamonds, per esempio, ha minacciato il governo di bloccare i suoi investimenti in tutto il Paese se non potrà esportare i diamanti sequestrati. Non solo: «La corporazione nucleare di Stato russa ha sospeso un progetto sull’uranio nel Paese», ha spiegato a Affarinternazionali Rebekka Rumpel, esperta di Kenya e Tanzania del centro di ricerca Chatham House. «Ci sono anche moltissime compagnie che sono preoccupate che i loro contratti vengano rinegoziati e che, dal momento che la nuova legge vieta di rifarsi ad arbitrati internazionali, non sanno come verranno gestiti i contenziosi».

Le reazioni all’interno del Paese sembrano invece più positive: «I partiti d’opposizione sono stati generalmente a favore della nuova legge che regola il settore minerario e hanno criticato unicamente la velocità con il quale il governo intende fare i cambiamenti. Ma in un Paese dove metà della popolazione vive con meno di 1,90 dollari al giorno e dove la memoria del primo presidente, Julius Nyerere, è ancora potente, Magufuli non può che essere considerato positivamente. Come Nyerere, le sue battaglie sono viste come una lotta per il bene dei tanzaniani», ha continuato la Rumpel.

Le ultime mosse del governo non fanno che confermare la tesi della Rumpel: dopo le minacce della Petra il governo non ha fatto nessuna dichiarazione ufficiale ma, due giorni dopo, Magufuli ha ordinato all’esercito di costruire dei muri intorno a tutti i giacimenti di tanzanite, dotandoli di telecamere, per «controllare le estrazioni illegali e le attività di commercio». In fondo, come ha detto ‘il Bulldozer’ si tratta di una «vera e propria guerra economica».