Missioni italiane all’estero: criteri per razionalizzarle
Una riflessione di Paolo Valentino sul Corriere della Sera circa il ‘rendimento politico’ delle nostre missioni militari all’estero ravviva il dibattito sul concetto di interesse nazionale, ormai da tempo non più ostracizzato dall’ ‘intelligentsia’ nostrana.
Non volendo addentrarmi nelle disquisizioni sui contenuti multiformi del concetto, mi limito ad alcune osservazioni sulla questione trattata da Valentino e cioè sull’opportunità di una revisione critica dello schieramento dei nostri militari nei vari teatri operativi.
Fattori geografici e fattori strutturali e contingenti
Il Libro Bianco della Difesa esplicita in modo chiaro l’ambito geografico di interesse, che da tempo viene definito il “Mediterraneo allargato”, in modo da comprendere a sud-est il Corno d’Africa e la penisola arabica, con il suo golfo, e a sud-ovest tutto il Magreb. Ma il criterio geografico non è certo sufficiente. Per una valutazione più approfondita occorre prendere in esame altri fattori, alcuni strutturali, altri più legati a dati contingenti. Tra i primi è rilevante il quadro delle alleanze e delle istituzioni sovranazionali cui dalla fine della Seconda Guerra Mondiale il nostro Paese fa riferimento; tra i secondi, ha assunto un rilievo incontestabile il fenomeno delle migrazioni.
Prendiamo in esame il primo aspetto. E’ una banalità ripetere che tre sono i pilastri della politica estera nazionale: Onu, Nato e Unione europea (in rigoroso ordine temporale).
In ottemperanza a un mandato Onu siamo, in forze, in Libano, ma ne traiamo qualche beneficio? A mio avviso molto modesti e limitati a un generale apprezzamento per come gestiamo la situazione, che peraltro evidenzia il sostanziale mancato conseguimento di alcuni degli obiettivi prefissi (tra cui il supporto al disarmo delle milizie da parte delle forze armate libanesi, milizie che nel frattempo hanno incrementato le loro disponibilità di qualche ordine di grandezza). Sarebbe quindi il caso di riflettere sull’opportunità di un ritiro dalla missione Unifil2.
Una valutazione delle missioni in ambito Nato e contro l’Isis
La Nato chiede ai suoi membri sostanzialmente due cose: mutua solidarietà e un coerente impegno finanziario. L’Italia non è in grado di soddisfare il secondo (per quanto miope e criticabile, il criterio del 2% del Pil per la difesa è per l’Italia un miraggio inarrivabile) e chiede per le proprie preoccupazioni strategiche la stessa solidarietà che lei dimostra per quelle altrui: ottime iniziative, dunque, le partecipazioni alle turnazioni per la difesa aerea di Islanda e Baltici, che dovrebbero diventare routine, e la disponibilità a partecipare alle “misure di rassicurazione” per i membri dell’Alleanza nord-orientali.
Sempre nell’ambito Nato si inquadrano altre missioni, come la navale Sea Guardian (in coordinamento con la Sophia dell’Ue) e la Joint Enterprise – Kfor in Kosovo, che invece rispondono ad un diretto interesse italiano di controllo e stabilizzazione. Discorso a parte merita la missione in Afghanistan, dove l’interesse nazionale è certamente più evanescente. Occorre quindi considerare questa disponibilità italiana a una presenza importante (siamo i secondi fornitori di truppe dopo gli Usa) come un contributo ‘in kind’ teso a compensare l’insufficienza del nostro impegno finanziario per la difesa.
In ottica parzialmente analoga si può considerare la nostra partecipazione allea coalizione anti Isis in Iraq: nell’area abbiamo interessi diffusi, dalle attività estrattive di Eni agli accordi commerciali nella regione, sia di tipo generale sia in particolare nell’industria della difesa, che giustificano una presenza italiana, giustificazione che risulta rafforzata dalla dimostrazione di solidarietà, che sarebbe molto più evidente ed apprezzata se non rimanessimo ancorati all’ipocrita minimalismo per cui i nostri velivoli identificano gli obiettivi, ma non li colpiscono!
Migranti: errori del passato e ossessioni del presente
Venendo ora all’Unione europea, e più in generale all’Europa, si può osservare con più evidenza l’intersezione delle motivazioni di tipo istituzionale con quelle legate al concretizzarsi di nuovi fenomeni, in particolare le migrazioni di massa. Qui è legittimo qualche dubbio sull’approccio seguito fino a poco tempo fa dal nostro Paese: ci siamo concentrati in modo ossessivo su quello che accade tra le coste libiche e gli approdi sul territorio nazionale, prestando un’attenzione marginale alle sorgenti del problema.
Solo da poco più di un anno ci siamo fatti paladini di quel ‘migration compact’, destinato ad agire sulle radici e si deve alla lungimiranza del ministro Minniti la paziente azione di tessitura tra tutte le realtà socioculturali che convivono nel territorio libico, solo modo di avvicinarsi a una qualche forma di integrazione istituzionale.
Ma nel passato abbiamo lasciata sola la Francia ad impegnarsi nella stabilizzazione di quell’Africa subsahariana che è la madre di tutte le migrazioni: è il caso di rammentare l’incomprensibile comportamento del governo Monti che, a fronte di una richiesta di Parigi di un paio di velivoli da trasporto per supportare il dispiegamento delle truppe in Mali e dopo l’assenso a tale richiesta da parte del Parlamento, rifiutò di concedere i nostri C-130. La Francia non ha dimenticato questo sgarbo e temo che ce lo stia facendo ancora pagare, mentre è molto grata a Berlino che, pur restia a impegnare le proprie truppe al di fuori dei confini nazionali, dalla fine del 2015 ha inviato un contingente che oggi è di circa 800 unità.
Questo sintetico elenco ragionato credo possa costituire un utile momento di riflessione per una razionalizzazione del nostro impegno militare all’estero che, anche in considerazione della limitatezza delle risorse disponibili, deve rispondere a consolidati criteri di utilità per la politica del Paese: non possiamo certo più permetterci di assecondare richieste che, come quella giunta d’Oltre Tevere, ci inducano a spedire i nostri uomini a Timor Est.