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Le ragioni di una scelta

Golfo: industria militare, Arabia ed Emirati fanno sul serio

12 Ago 2017 - Eleonora Ardemagni - Eleonora Ardemagni

Diversificazione economica, maggiore autonomia dagli alleati occidentali, prestigio e competizione con l’ ‘autarchico’ Iran: c’è anche questo dietro lo sviluppo dell’industria militare saudita ed emiratina. Obiettivo dell’Arabia Saudita è “localizzare nel regno, entro il 2030, il 50% delle spese militari totali” ha dichiarato Mohammed bin Salman, ministro della difesa e neo principe ereditario, annunciando la creazione della Saudi Arabia Military Industries (Sami), la compagnia pubblica che gestirà il rilancio dell’industria militare nazionale.

Adesso, i sauditi producono internamente solo il 2% dei loro armamenti. Dunque, la sfida appare inverosimile, ma i numeri danno il senso della direzione. L’industria militare è al centro dei recenti accordi siglati dall’Arabia Saudita con le potenze asiatiche Pakistan, Indonesia, India e Cina: quest’ultima produrrà nel Regno droni dual-use (civile-militare), con obiettivo l’export.

Strategie e offsets
Tra i Paesi arabi del Golfo, solo gli Emirati Arabi Uniti (Eau) hanno sviluppato una promettente industria nazionale della difesa, con epicentro il military-industrial complex di Abu Dhabi. I sauditi guardano quindi agli emiratini, già pionieri della diversificazione economica post-oil: nel 2014, le industrie della difesa della Federazione, concentrate fra gli emirati di Abu Dhabi, Dubai e Ras al-Khaimah, vennero raggruppate sotto l’ombrello della Edic (Emirates Defense Industries Company). La saudita Sami ed l’emiratina Edic rivelano un obiettivo comune: ottimizzare il coordinamento strategico e attrarre investimenti esteri.

Gli offsets legati ai contratti di fornitura militare sono ancora il pilastro dell’industria indigena della difesa. Tra le monarchie del Golfo fu l’Arabia Saudita a lanciare per prima un offset program: era il 1984. Invece, il programma degli Eau è partito nel 1992, ma ha raggiunto risultati migliori e in minor tempo.

La leadership del principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed Al-Nahyan, studi all’accademia militare di Sandhurst, fa la differenza. Riad ha stipulato soprattutto offset indiretti con statunitensi, britannici e francesi: il Paese esportatore promuove investimenti nel Paese importatore, non necessariamente legati all’industria militare. Invece, Abu Dhabi ha privilegiato gli offset diretti: lo Stato esportatore co-produce con lo Stato importatore componenti/tecnologie relative all’accordo, tramite joint-ventures e sub-contratti.

Gli Emirati pionieri
Gli Eau si stanno specializzando nella produzione di munizioni, componentistica e industria navale, nonché in manutenzione e servizi alla difesa. Il UAV Research & Technology Centre è un fiore all’occhiello per la produzione di droni, mentre il settore missilistico è indietro. Modelli del blindato emiratino Nimr (co-prodotto in Algeria) sono impiegati nel conflitto in Yemen, così come le corvette Baynunah. Gli emiratini ambiscono a diventare esportatori netti e già vendono alle monarchie vicine.

L’acquisizione di aziende straniere è fondamentale per il trasferimento delle tecnologie, ma rappresenta solo l’avvio: Abu Dhabi l’ha capito. L’assorbimento delle tecnologie è il passaggio davvero cruciale per la creazione di un’industria degli Emirati: ciò si realizza con lo sviluppo di competenze locali, spostando parte delle risorse finanziare dalla fase del procurement a quella dell’education tecnica. Certo, industria nazionale (soprattutto in assenza di un’industria civile pregressa) non equivale sempre a “industria degli emiratini”: l’impiego di tecnici stranieri super qualificati è ancora massiccio.

Cambi di paradigma
Emirati e Arabia ricalibreranno i loro acquisti, ma non smetteranno certo di importare armi: è anche una formidabile leva di politica estera, specie al tempo di shale gas/oil. Per il Golfo, la creazione di industrie nazionali della difesa è solo l’ultimo “cambio di paradigma” nella sfera militare. Nel 2014, EAU e Qatar hanno introdotto il servizio militare obbligatorio per i cittadini, misura di nation-building reintrodotta dal Kuwait nel 2017: seppur ufficialmente non in agenda, la questione della leva militare è persino entrata nel dibattito pubblico saudita, con il grande Mufti che ne caldeggia l’introduzione.

Dal 2015, il conflitto in Yemen contro gli insorti sciiti ha poi segnato uno spartiacque per gli eserciti di Riad e soprattutto Abu Dhabi (i 1000 soldati qatarini sono stati espulsi a causa della crisi con il fronte saudita-emiratino). Mai le monarchie del Golfo avevano inviato militari, nonché subito perdite umane, anche di nazionali, in una guerra estera.

Risvolti politici
Il crescente peso dell’industria militare ha ricadute sia domestiche che regionali. Sul piano interno, gli ufficiali (solitamente nationals) acquisiranno più potere: grazie alle competenze tecnico-operative, essi diventano figure di raccordo fra compagnie nazionali ed estere, forze armate e ˊcerchi di potereˋ monarchico, incidendo così nel processo decisionale. C’è il rischio corruzione: nei contratti per la difesa, l’intermediazione è oggi proibita (ufficialmente) in Arabia Saudita. Sul piano regionale, la recente/prossima apertura delle prime basi militari estere di Arabia Saudita (Gibuti) ed Eau (Eritrea e Somaliland) creerà nuove opportunità per testare e fornire materiale militare “made in Golfo”, consolidando nuove alleanze geopolitiche. Lo sviluppo dell’industria militare è dunque, per Emirati e Arabia Saudita, una questione primariamente economica, ma dai risvolti molto politici.